Home ATTUALITÀ Vivere l’Islam a Roma Nord. Sabika, voce dissidente di seconda generazione

    Vivere l’Islam a Roma Nord. Sabika, voce dissidente di seconda generazione

    Sabika Shah Povia
    ArsBiomedica

    La società in cui viviamo, improntata alla globalizzazione e segnata dai flussi migratori, permette di entrare in contatto con una molteplicità di etnie. Per alcuni questo aspetto si rivela una preziosa possibilità, per altri un fattore di crisi.

    Aldilà delle opinioni personali, ognuno di noi ha avuto almeno una volta la possibilità di entrare in contatto con una persona di origini straniere. Raramente però ci si interroga su quale sia stato il suo percorso di integrazione, quali i paradossi e gli stereotipi che si è dovuto far scivolare di dosso, perché alcuni dettati dall’ingenuità, altri dalla pura ignoranza e frutto di provocazioni.

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    Per Sabika, cittadina italiana di seconda generazione, l’iter è stato molto diverso, ma ha comunque portato ad una riflessione profonda sullo stato di tolleranza, comprensione e ascolto che oggi il nostro Paese manifesta verso la multiculturalità.

    Lei si definisce ironicamente “il tocco etnico del suo gruppo di amici“, ma coniugare lo stile di vita di un islamico in Italia, a contatto con una società, che mai come in questo momento nutre sospetto verso l’Islam e gli stranieri, di certo non è stato facile, tanto più se sei una giornalista e devi promuovere una corretta informazione sul tema.

    Sabika Shah Povia è infatti una giornalista italo-pakistana che si occupa principalmente di terrorismo in Europa, di Islam, integrazione e migrazioni.

    È una delle maggiori promotrici dei diritti per le seconde generazioni e per i migranti in Italia. Ha collaborato e collabora tuttora con diverse testate giornalistiche nazionali e internazionali, tra cui: The Post Internazionale, Corriere della Sera, La Repubblica, CNN International, Reuters, The News International e ANSA.

    Lavora inoltre con organizzazioni come l’Agenzia ONU per i Rifugiati Palestinesi e il Comitato 3 Ottobre. Nel 2008 si è laureata in giornalismo alla London College of Communication e ora lavora come freelancer, scrivendo per le principali testate nazionali pakistane.

    Ed è proprio a lei che vogliamo porre delle domande sul clima che si respira in questi giorni, anche perché nata e cresciuta proprio qui, a Roma Nord.

    Sabika, come ex residente, quali ricordi ti legano a Roma Nord?

    Beh, molti riguardano sicuramente il Liceo Scientifico Farnesina: quando ero in primo liceo ero in effetti l’unica etnicamente diversa, venivo chiamata per questo la “pakistana del Farnesina“.

    A mio vantaggio, avendo frequentato la scuola americana ed avendo un inglese fluente, per qualsiasi attività a livello internazionale ero già automaticamente coinvolta. Questo aspetto mi ha permesso di socializzare facilmente.

    Mi ricordo per esempio che, se organizzavamo dei pic-nic, i miei compagni mi chiedevano di portare sempre dei piatti come il pollo tandoori, il curry…. ecco, non vorrei tradire le loro aspettative, ma non è che ho doti culinarie di uno chef solo perché sono pakistana!

    Questo genere di stereotipi, all’epoca ti demoralizzò?

    No dai, la cosa ti diverte, soprattutto perché se facevo regali ai miei amici tutti pensavano venissero dal Cashmere, invece magari li compravo al centro commerciale, così come se cucinavo un dolce cercavano di indovinare le spezie, che però non usavo.

    Io lo chiamo “il tocco etnico“, il cercare quel qualcosa che mi rende diversa, che non necessariamente dev’esserci solo perché ho una famiglia straniera. Certo su alcune cose, come la musica e l’abbigliamento ero forse un po’ indietro.

    Così, quando i miei compagni parlavano delle scarpe Magnum, per me equivaleva a gelato, se citavano Battisti, non avevo idea di chi stessero parlando.

    Si può dire che ti sia sentita a disagio per questo?

    Fortunatamente no, i miei compagni non mi hanno mai fatto pesare questa diversità, non ho mai nascosto la mia fede solo perché ero l’unica a rappresentarla nella mia scuola.

    La mia diversità era interessante nel contesto multiculturale, adesso la situazione è diversa: sono stata recentemente al Farnesina e mi sono stupita di vedere quante persone di origini straniera ci fossero.

    All’epoca ero etichettata come “la marrone” nella scala cromatica degli stranieri, ma nessuno ha mai realizzato che alla fine ero una comune ragazza di Roma Nord.

    Ma come, ti chiami “marrone” da sola?

    Beh ma è quello il mio colore, non è che posso negarlo! Lo dico perché non sai mai dove collocarci rispetto alla gente più scura di noi, ad esempio del Congo o Kenya.

    Ma non è quello il problema, in Italia il diverso piace, il problema si crea quando siamo in tanti e costituiamo una vera e propria realtà, con degli specifici problemi da attualizzare e affrontare a suon di “siete troppi”.

    Rispetto alle tue coetanee, che possono vedere l’Occidente un posto in cui vivere ma non sempre in cui  sentirsi integrate, ti senti più fortunata?

    A dire il vero, anche per me è nuova questa distinzione, sono 5-6 anni che ho imparato a rispondere alla domanda “di dove sei?” con “italiana”. Prima rispondevo “pakistana”, ma sono a tutti gli effetti cittadina italiana.

    Non credo nell’integrazione secondo il modello francese dell'”assimilazione”: non bisogna annullare le diversità culturali o abbandonare le proprie tradizioni. Penso che l’integrazione sia altra cosa e abbia a che fare con l’avere una vita onesta, seguendo la propria strada con intenzioni positive.

    Cosa pensi di chi interpreta l’islamismo come una fede violenta?

    Penso che il Corano offra molte interpretazioni, d’altronde è scritto in arabo ed ogni parola ha 20 significati diversi, è un testo che si adatta alle proprie motivazioni.

    Io mi sento perfettamente integrata nella società italiana e allo stesso tempo in linea con le mie tradizioni. La religione è una cosa personale, non dovrebbe essere questione di dibattito pubblico.

    Eppure lo è, ci sono degli spaccati nella vita di tutti i giorni in cui la cultura occidentale e quella mediorientale non possono che convergere…

    Sì ma, ad esempio, io non bevo. Quindi, mi pesa rinunciare al bicchiere di vino a pranzo? Non l’ho mai provato e non mi attrae, e da un lato questa rinuncia mi piace perché ho un mio spazio per autodeterminarmi fuori dalle comuni pressioni sociali. Se voglio bere prendo una birra, può succedere, non sono una musulmana perfetta.

    La differenza è che un tempo mi giustificavo dicendo “non bevo per religione“, ma la verità è che non bevo semplicemente perché non mi va. Questo discorso riguarda gli alcolici comuni, fino al goccio di liquore in una torta.

    C’è da dire, però, che l’Italia manca di programmi che favoriscano l’integrazione delle minoranze etniche anche da aspetti più semplici, come quelli alimentari.

    Sabika, come collega, sul fronte professionale la domanda sorge spontanea. Come pensi che i mezzi di comunicazione di massa raccontino la cultura islamica?

    Diciamo che a volte le persone hanno buone intenzioni ma nel trasporle a livello mediatico possono esserci dei fraintendimenti.

    Ti riferisci a qualche esempio in particolare?

    Ci fu un caso molto significativo con Massimo Gramellini, attuale vicedirettore de Il Corriere della Sera. Dopo i fatti di Nizza lessi il titolo di un suo editoriale, “Caro musulmano che vivi in Occidente”, e mi resi conto Gramellini si stava, in un certo qual modo, rivolgendo a me come ad altri della comunità islamica.

    Da lì ho iniziato a leggere il suo intervento con un’ottica differente, mi sono sentita tirare in ballo, ci invitava a scendere in piazza, a dissociarci, a protestare contro il terrorismo, ma erano tutte cose che in realtà stavo già facendo.

    Sicuramente, non tutti i musulmani hanno intrapreso questa via, però non mi è sembrato un modo corretto di rivolgersi alle persone dopo un simile accaduto, come se noi musulmani ci dovessimo discolpare di qualcosa.

    Che poi a dire il vero, molti islamici si sono dissociati e continuano a farlo pubblicamente, per esempio tramite video su YouTube con l’hastag #NotInMyName

    Infatti, sembra che dobbiamo sempre discolparci di qualcosa che ci tocca solo come comunità, non come singoli e portavoce del nostro pensiero. Se non scendiamo in piazza, sembriamo giustificare certi atti, se decidiamo di manifestare ci viene obiettato siamo troppo pochi.

    Il “Buongiorno” di Gramellini è stato uno di quegli esempi che interpretavano il finto buonismo che molto spesso vediamo nella nostra società, mi sentivo quasi sotto accusa, come a voler dire “ei tu musulmano! Va bene sei mio fratello, però se vuoi piacerci devi fare questo per noi”.

    Il pensiero è forse un po’ forzato, ma proviamo a ribaltare la situazione. Ipotizziamo che si diffondano atti di terrorismo legati all’estremismo cristiano, cattolico in questo caso, in modo tale da sentirci ancor più coinvolti.
    Ad un certo punto arriva un noto giornalista musulmano, che quindi ha un ruolo influente nel dibattito pubblico, ed esordisce con: “Appello ai cristiani, siete sicuri di aver fatto del vostro meglio per rispondere al terrorismo?”. Come reagiresti voi, da lettori?

    E, Sabika, secondo te, in questo caso ha un senso un articolo del genere?

    Ma no, le azioni sono individuali e non trovo il senso di generalizzare. Non c’è bisogno di ricordare quali siano i nostri doveri, semmai concretizziamoli insieme e dimostriamo che siamo uniti contro il terrorismo.

    Perché, pur passando un messaggio di “fratellanza”, nel dibattito pubblico si tende ad abusare del separatorio “voi” e “noi”?

    Lo trovo assurdo. Ogni musulmano ha le sue ragioni per intervenire, alcuni non manifestano perché ricordano il silenzio sui morti del Pakistan, altri per quelli dello Yemen, altri per Baghdad. Giustamente ognuno si domanda: “cosa devo dimostrare e a chi?”.

    I musulmani sono le prime vittime dell’Isis nei paesi mediorientali, quindi è anche possibile che abbiano rabbia per la strumentalizzazione della causa in Europa.

    Personalmente io partecipo sempre alle manifestazioni, la sento una mia responsabilità sociale, soprattutto perché se mai da casa dovesse vedermi alla tv una vecchietta, almeno saprà che sono dalla sua parte nel mio piccolo.

    Sì, ma scendendo in piazza non senti di assecondare un ragionamento denigratorio?

    Cerco di mettere anche la signorotta, bigotta o meno, nella posizione di ricredersi,  di farle vedere che noi comunque siamo dalla stessa parte.

    Io prendo questa posizione per gli altri, non ho bisogno di integrarmi, di giustificarmi, non ho bisogno di dimostrare la mia innocenza. Anche i miei fratelli devono fare la loro parte però.

    In che modo?

    Durante il Giubileo, per esempio, molte mie amiche sono state perquisite dai militari in metro, e si arrabbiavano di questo “abuso”.

    Ovvio, non è giusto che ci sia una discriminazione per etnia, però purtroppo possiamo imparare a comprendere da dove viene, capire che non è un sopruso solo perché abbiamo un’etnia vagamente assimilabile ai terroristi.

    Dal canto nostro possiamo agevolare le cose e fare in modo che chi fa il proprio lavoro lo faccia nel migliore dei modi. Dev’essere una scelta sentirsi parte della comunità, si vede anche da questo.

    E per quanto riguarda la stereotipizzazione che spesso viene utilizzata nel dibattito pubblico? Quali termini ritieni siano fuori luogo nel parlare del fondamentalismo islamico per il giornalismo italiano?

    La più banale che mi viene in mente è parlare di Isis come “Stato Islamico”, quando bisognerebbe definirlo “Sedicente stato islamico”.

    Sembra insignificante, però le parole sono un’arma, in questo caso parliamo di un’istituzione autoriconosciuta che non dobbiamo legittimare a livello politico.

    Come spiegheresti la differenza?

    Sono un gruppo di fanatici che si sono autodichiarati Stato dopo aver sottratto con la forza del terreno. Stiamo parlando di uno Stato che non esiste, e dandogli voce lo legittimiamo a rafforzarsi.

    Oppure un altro esempio è quando si cita l’espressione “Allah Akbar” senza tradurla, o traducendola male con “Allah è grande”. Peccato che Allah sia la parola araba per dire “dio”, lasciando Allah in lingua originale si fa in modo di sottolineare come il tuo Dio sia diverso dal nostro, mentre in Islam è vietato personificare con un nome proprio Dio.

    Questo dimostra quanto sia importante la comunicazione…

    È un discorso molto comune nella trasposizione dalla lingua araba, come quando si chiama il Sahara “deserto del Sahara“, solo che “sahara” in lingua araba vuol dire “deserto”, quindi è come se l’occidentalizzazione della parola fosse “deserto del deserto”.

    Parlando di comunicazione, cosa pensi del modo in cui il giornalismo italiano si occupa dell’Islam? Quali differenze ti arrivano più all’occhio fra l’Italia e gli altri paesi europei?

    Il problema è più grave di quel che arriva al pubblico. La TV offre un messaggio schizofrenico: in trasmissione posso al contempo rappresentare un’esperta sul tema e una musulmana miscredente se raffrontata agli integralisti, quindi poco attendibile.

    Il punto è che io vengo considerata un’esperta perché di origine pakistana e di fede musulmana, non perché sono una giornalista o perché rappresento una voce informata sull’Islam.

    Ci sono colleghi italiani non musulmani molto più esperti di me, ma in Italia questo non risalta.

    In che senso?

    Nel senso che esteticamente rappresento più il tipico stereotipo del musulmano di seconda generazione.

    In Portogallo, ad esempio, non c’è un dibattito così acceso sull’islamismo, anzi si cerca di invogliare gli immigrati a partecipare alla vita politica del Paese.

    Quindi siamo a tutti gli effetti indietro in termini di integrazione…

    L’Italia non è pronta, ma lo sarà. A tal riguardo, riporto un esempio molto interessante per far capire quanto siano temporanee alcune situazioni italiane.

    In un articolo di giornale veniva riportata una notizia allarmante, si parlava di gente che veniva a rubare il lavoro, gente analfabetizzata, portatrice di malattie, decisamente indesiderata. Beh, riesci ad immaginare chi fossero?

    Stranieri?

    In un certo senso lo erano. Gli italiani del Nord attaccavano quelli del Sud Italia, lamentandosi dei flussi migratori, o del fatto che facevano troppi figli.

    Stessa storia poi negli anni ’90 con gli albanesi, così fu per i marocchini, i rumeni, ora tocca ai musulmani e agli “africani”.

    Secondo l’ultimo Rapporto dell’Osservatorio Romano sulle migrazioni, il XV Municipio è il quarto per numero di immigrati residenti e secondo per incidenza sul totale della popolazione, con circa 28.897 persone. Osservando inoltre l’incidenza che la popolazione immigrata ha sulla popolazione complessiva, il XV è fra i municipi che presentano la percentuale più alta con il 22,2 %. Tuttavia, a causa delle numerose correnti che la attraversano, contrariamente a quanto si creda non si può parlare di una vera e propria comunità islamica in Italia, tanto meno nel XV Municipio.

    A questo punto Sabika, ha senso parlare di una comunità se è così disgregata al suo interno?

    No, ed è per questo che è difficile trovare degli accordi fra comunità islamica e Stato Italiano, al suo interno la comunità comprende infatti persone provenienti da diversi paesi, diverse correnti sunnite o sciite, persino le associazioni islamiche all’interno della comunità non riescono ad accordarsi.

    Barbara Polidori

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    2 COMMENTI

    1. Una persona così, intelligente, aperta, colta, autonoma, e tutte le altre belle doti che ha, dimostra il fallimento di noi cattolici italiani; se noi non fossimo delle amebe insignificanti, indegne di chiamarci cattolici, Sabika oggi sarebbe cattolica, e non per alcuna pressione di proselitismo, ma perché avrebbe visto quella bellezza della Verità che noi teniamo banalmente oscurata.

    2. I miei più sinceri complimenti a Barbara e a Sabika per l’intelligenza, la sensibilità e la diretta semplicità con cui hanno affrontato un argomento apparentemente così spinoso. Dico ‘apparentemente’ perché, per chi possiede la volontà di capire, allora non vi è nulla di spinoso.
      Basta saper ascoltare, leggere, ossevare, senza i paraocchi della visione religiosa che tutto distorcono, impedendoci, ancora oggi, di giudicare una persona per ciò che è e per ciò che vale, non certo per il nome della divinità in cui crede o non crede.
      Complimenti ragazze, continuate così.

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