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Gino Santercole, una vita tra musica e cinema

gino santercole
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Gino Santercole a colloquio con VignaClaraBlog.it  Ama la musica. Da Louis Armstrong all’Opera, da Frank Sinatra a Ella Fitzgerald, da Ray Charles a Nicola Piovani. Ha scritto brani indimenticabili. E ama il cinema per il quale non solo ha potuto cimentarsi in veste di attore, sotto la regia di nomi illustri, ma ha anche potuto scrivere colonne sonore di successo. Ha vissuto in pieno l’arrivo del Rock’n’Roll in Italia e ha suonato la prima Fender giunta nel nostro Paese da oltreoceano. E’ parente di un grande artista come Adriano Celentano con cui ha mosso i primi passi nel mondo della musica, e non solo, e con cui ha condiviso l’indimenticabile esperienza del Clan.

Stiamo parlando del musicista, cantautore e attore Gino Santercole. Un vissuto intenso il suo, ricco di esperienze. Non pochi i momenti difficili, come il divorzio dalla prima moglie e un lungo periodo di depressione.

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Ma tanti i successi e tante le gioie, come ad esempio l’incontro con l’attuale moglie, la bella Melù Valente, un tempo anche lei attrice e cantante. La sua risata, il suo stile casual, il piacere nel cantare anche dopo una tranquilla serata trascorsa nel ristorante preferito. Ecco chi è Gino Santercole oggi.

VignaClaraBlog.it ha incontrato questo grande artista che è tornato ad imbracciare una chitarra e che venerdì 25 marzo si esibirà al Museo Crocetti in via Cassia 492 con il concerto “C’era una volta il Clan”.

Gino, anche lui un ragazzo della via Gluck

Anche lei un ragazzo della via Gluck. Anche lei, come dice la canzone, diviso tra la voglia “di andare in città” e la voglia di restare? No. Io, a differenza di Adriano (Celentano ndr), per fortuna sono sempre rimasto lì. Anche se non era facilissimo per un ragazzo di origine pugliese vivere a Milano. Non c’era simpatia per i meridionali. Venivo chiamato in continuazione “terùn terùn”. E all’inizio non sapevo neppure cosa volesse dire. Io poi ero pure mancino, terùn e mancino!

Però sono rimasto in via Gluck, lì sono cresciuto e lì mi sono divertito. Ricordo che c’era un ragazzo più grande che giocava nella squadra nazionale di baseball, era l’inizio del 1958, e con lui tutti noi bambini abbiamo imparato a giocare a baseball. Per Adriano è stato diverso.

Ossia? Adriano non aveva alcuna voglia di andare via. La sua è stata un’esigenza familiare. Mia nonna rimase vedova e con suo figlio Adriano, che è mio zio, andò a vivere dal secondogenito. Adriano è l’ultimo figlio. Fu così che si trovò costretto ad andare a vivere in centro. Ma era tale la sua nostalgia per via Gluck che veniva quasi tutti i giorni a piedi.

Ci metteva un’ora e mezza. Io lo vedovo arrivare e dicevo: “Uè sta arrivando Adriano!”. Veniva a piedi perché non aveva i soldi del tram e non li voleva chiedere a mia nonna. Anche perché mia nonna soffriva nel vedere che il figlio non riusciva a dimenticare questa strada. Poi si è abituato a vivere in centro e quando siamo diventati più grandi abbiamo cominciato a lavorare insieme.

Eravate uniti quindi? Eravamo molto uniti. Anche se è mio zio non ha neppure due anni più di me. E quando lui cominciò a lavorare nell’orologeria di un tale che aveva sette fratelli che avevano sette negozi, mi raccomandò a uno di loro. Lui lavorava da un fratello e io da un altro. Dopo un po’ mi disse: “Ma perché non lavoriamo insieme?”. E io pensai: “Bellissimo!”.

E così è stato per un paio d’anni. Poi lui ha conosciuto Tony Renis e ha cominciato a fare il cantante. E’ stato allora che io ho iniziato a studiare la chitarra da autodidatta. In famiglia era mio padre che suonava la chitarra, strumento che fino ad allora avevo solo visto attaccato alla parete senza mai pensare di prenderlo in mano. Per me c’era solo il baseball. Poi un giorno Adriano mi disse: “Perché non cominciamo a cantare e a suonare?”.

Arriva una fender e nasce il clan

E tutto è nato da una chitarra...Sì. Fu allora che io cominciai a prendere in mano questa chitarra. Ho preso qualche lezione, ma si può dire che ho imparato da solo, piano piano, con i dischi, con le canzoni. E cominciai a suonare con lui, sono stato il suo primo chitarrista. In pratica ho imparato a suonare la chitarra sul palco.Ricordo quando arrivò la famosa Fender dall’America, una chitarra che in Italia non si conosceva e che negli Stati Uniti era utilizzata da tutti quelli che suonavano il Rock’n’Roll. Con questa chitarra abbiamo cominciato a fare le serate. Poi è arrivato il Clan.

Io suonavo la chitarra, ma a un certo punto si avvertì l’esigenza di un altro cantante. Accadde così che un giorno, mentre ci trovavamo alla RCA qui a Roma, Adriano mi fece provare la canzone di Don Backy Ho rimasto solo. Mi meravigliai anch’io del risultato.

Adriano disse: “Sei bravissimo. Abbiamo trovato un altro cantante!”. Io ero contentissimo, ma nonostante ciò mi sentivo sempre un po’ insicuro. Suonavo bene la chitarra, ma non mi sentivo un cantante.Poi però incisi il primo disco, una cover di “Busted” di Ray Charles, tradotto in italiano in “Sono un fallito“. E da lì ho iniziato a cantare. Ci fu poi “Stella d’argento” che venne considerato un successo strepitoso.

Ha fatto parte del complesso I Ribelli, ma ha anche intrapreso una carriera da solista. Quali le principali differenze tra le due strade e quali le maggiori soddisfazioni? In gruppo mi sono sempre divertito tanto. Abbiamo girato tutta l’Italia ed è stato divertentissimo. Quando ho cominciato a fare il cantante ho sentito la differenza. Partire da solo non mi piaceva. Ma poi quando è nato il Clan ho ricominciato a sentire l’atmosfera del gruppo.

Un ricordo indelebile del Clan? I momenti erano tutti belli perché si viveva giorno dopo giorno. Un bel ricordo, ad esempio, è legato al Cantagiro del 1967. Durante i percorsi e negli alberghi c’era un gran divertimento tra i cantanti.

Dopo un periodo di allontanamento con Celentano vi siete riuniti e lei ha partecipato anche a una delle sue ultime trasmissioni “Francamente me ne infischio”...Sì. Nacque tutto dal mio incontro a Roma con Pio Trebbi, l’ultimo cantante del Clan. Lui cantò con Renato Rascel al Festival di Sanremo “Nevicava a Roma”, un brano che ebbe grande successo.

Quando lo incontrai era molto cambiato, non stava bene. Mi disse che aveva una canzone, “L’ultimo del Clan“. E così facemmo questo pezzo. Ma io non volevo andare in trasmissione. Volevo che ci andasse lui. Decisi quindi di chiamare Adriano e di proporre la partecipazione di Pio al programma. Adriano accettò e volle che andassi anch’io. Da quel momento io e Adriano abbiamo ricominciato a sentirci spesso.

L’incontro della sua vita

Il clan, per lei un momento d’oro quindi...Fino ad allora. Io poi mi sono sposato, mia moglie era di Roma e visto che a Milano cominciavano i primi problemi con il Clan decisi di trasferirmi nella Capitale. Ma dopo un anno io e mia moglie ci siamo separati. Io avevo 32 anni, mi ero sposato a 26, e avevamo due bambini. Da lì è cominciata una grande depressione che è durata un bel po’ di anni.

Poi, durante le riprese di un film a Brescia, ho conosciuto Melù, ma lei era fidanzata e io non vivevo un periodo particolarmente sereno. Ci siamo comunque fatti simpatia e così le ho chiesto di lasciarmi il numero di telefono. Una volta tornato a Roma l’ho chiamata, ma lei non mi ha mai risposto.

Un giorno poi la vedo davanti casa mia, stava facendo delle fotografie a Paolo Villaggio, che abitava lì vicino, ed Erika Blanc. E’ così che ci siamo incontrati di nuovo, casualmente, a Roma. Io in quel periodo stavo cercando una casa e lei mi invitò a stare da lei con il suo fidanzato. Finì che rimanemmo io e lei.Ma fu una cosa molto spontanea e naturale. Nulla di studiato, anche perché in quel periodo io non andavo alla ricerca di  qualcosa. E dal 1973 stiamo ancora insieme.

Musica, cinema e musica per il cinema

Il suo nome è legato a brani indimenticabili della musica italiana, come “Una carezza in un pugno”. Come nasce un brano di successo? Il successo nasce dopo. Quando si scrivono le canzoni non si sa se diventeranno un successo o meno. Io ho sempre amato molto la musica. Dal Rock’n’Roll alla lirica, che me l’ha fatta amare mio padre, fino alla musica dei film. Sono cresciuto ascoltando musica.

Ricordo che sentendo “Strangers in the night” pensai: “Che bella canzone”. Ancora non avevo scritto niente, perché non pensavo di esserne in grado. Cominciai così a suonare “Strangers in the night” con la chitarra e da lì, nota dopo nota, mi ritrovai a suonare un brano nuovo che poi divenne appunto “Una carezza in un pugno“.

Una canzone che nacque pensando ai concerti, alle sinfonie, alle opere. Il mio rammarico è che questo brano non sia stato poi mandato all’estero. A mio parere poteva essere tranquillamente cantato, ad esempio, da Frank Sinatra. Credo che un pezzo del genere sarebbe potuto andare in America. Vorremmo provarci adesso proponendolo a Michael Bublè.

La canzone a cui è più legato? Certamente “Una carezza in un pugno”, il brano che mi ha dato la convinzione di poter scrivere canzoni e che, tutt’oggi, mi dà maggiore riconoscibilità. E questo mi fa piacere.

Ma ho fatto anche una canzone romana bellissima, “Solo per amore nun se’ vive”, dal film “Er più – Storia d’amore e di coltello” (regia di Sergio Corbucci ndr). Fu Corbucci a chiedermi di scrivere una canzone romana. Io pensai alla musica, lui scrisse il testo. Ricordo che l’intera musica di quel film era stata affidata a Carlo Rustichelli, grande compositore, ma Corbucci gli disse che c’era un mio pezzo scritto proprio per il film. E così il brano venne inserito nella pellicola.

Ed ecco che diventa compositore di musiche per il cinema…Sì. Successivamente sono stato chiamato da Castellano e Pipolo per fare la colonna sonora di “Segni particolari bellissimo”, in cui Adriano Celentano era il protagonista. Una colonna sonora che ottenne un ottimo consenso di critica. Poi c’è stato “Yuppi du”, il film più bello che ho fatto nella mia vita e nel quale canto anche un’altra mia bella canzone.

Tanto cinema quindi…Sì, ho lavorato con grandi registi. Mario Monicelli, Ettore Scola, Giuliano Montaldo, Dino Risi, Pietro Germi, Luigi Comencini…

Come mai è passato dalle note alla pellicola? Accadde quando Adriano stava girando “Serafino” di Pietro Germi. Lo andai a trovare un giorno sul set. Germi mi vide, domandò chi fossi e disse: “Bella faccia”. Così decise di prendermi e mi fece fare il sergente.Una parte non lunga, ma bella. Serafino era un lavativo ed io dovevo metterlo in riga. Sul set poi conobbi l’aiuto regista di Germi che mi propose di fare un film con Luigi Comencini. Così ho cominciato a fare l’attore.

Si è sempre lanciato nelle avventure...Sì, possiamo dire che il coraggio non mi è mai mancato. A scuola sono sempre stato troppo vivace, così dopo ho avvertito la necessità di impegnarmi con serietà. Quando, ad esempio, ho fatto “Marco Polo” (regia di Giuliano Montaldo ndr), dove c’erano tanti grandi nomi del cinema internazionale come Burt Lancaster, ho studiato la mia parte interamente in inglese, lingua che fino ad allora conoscevo solo attraverso le canzoni.

Montaldo è stato uno dei registi più bravi che abbia incontrato. Era molto attento e umano con tutti gli attori, dai nomi più importanti alle comparse. Sempre con Montaldo, prima del “Marco Polo”, ho fatto “L’Agnese va a morire”, tratto dall’omonimo romanzo di Renata Viganò che raccontava la storia delle donne durante la Resistenza.Agnese, interpretata dall’attrice svedese Ingrid Thulin, era una di queste donne. Un bel film. Posso dire di aver avuto coraggio nell’affrontare cast importanti, dall’elevata professionalità. E’ grazie a queste esperienze che ho imparato a stare sul set.

Musica, cinema e musica per il cinema. Quali di queste esperienze ha prediletto? Ciò che ora mi piace fare più di ogni altra cosa è cantare. Ma per me non è stato sempre facile. E’ per questa ragione che nel 1981 ho scritto “Adriano t’incendierò“. Non perché avessi qualcosa contro di lui, ma perché in quel periodo avevo difficoltà nella musica.

Il nome di Celentanto mi perseguitava. Quando il Clan si è sciolto io ho cominciato a presentarmi alle case discografiche, cercando di continuare a cantare, ma non ci riuscivo. Tutti continuavano a parlarmi del Clan chiedendomi perché non ci fosse Adriano a farmi cantare. Ho quindi avuto difficoltà a fare musica e per fortuna c’è stato il cinema.

Fu così che nacque il brano “Adriano t’incendierò”, con il testo scritto da Don Backy, proprio colui che aveva abbandonato polemicamente il Clan e che in qualche modo ne aveva segnato la fine. Possiamo dire che fu una sorta di risposta alla grande sete di pettegolezzo che avvertivo intorno. La canzone ebbe un successo di ascolti e quando nel 1989 Adriano fece “Fantastico” mi invitò a cantare proprio questa canzone.

Gino Santercole oggi

Nell’attuale panorama musicale italiano, a suo parere, ci sono dei talenti? Sì, senz’altro ci sono. Non ci sono talenti in chi li dirige, nelle case discografiche. E penso che manchino dei compositori, come Ennio Morricone, Burt Bacharach, Jean Michel Jarre. Nomi così dovrebbero lavorare per i cantanti. Non possono essere tutti cantautori e il problema è che sono stati eliminati due elementi basilari nella musica, il compositore e il paroliere. I cantanti giovani sono bravi, ma lo sono perché tendenzialmente cantano canzoni nostre, non canzoni nuove. Manca chi sa scrivere la musica.

Qualche consiglio a un giovane che vuole diventare musicista o cantante? E’ difficile dare dei consigli e certo non è semplice adesso. La soluzione ottimale sarebbe autoprodursi, ma per fare questo ci vogliono molti soldi. Forse una buona risorsa è rappresentata da Internet, dai social network. Penso che un giovane che voglia fare musica debba trovare strade alternative alle case discografiche e forse proprio il web può rivelarsi un mezzo utile in tal senso.

Oltre alla musica e al cinema Gino Santercole ha altre passioni? Tutto lo sport, che mi ha salvato. Baseball, tennis, equitazione, corsa, nuoto.

Com’è il suo rapporto con Roma Nord, territorio in cui vive? Bellissimo. Dopo essere tornato per cinque anni a Milano mi sono nuovamente trasferito a Roma e ora è dal 1989 che vivo in questa parte della città e mi trovo molto bene. E’ a misura d’uomo e questo adesso mi piace. Penso che i romani siano più spiritosi dei milanesi, anche più caciaroni, ma va bene così!

I suoi programmi? Per venti anni io e mia moglie ci siamo dedicati alla ristorazione tra Milano e Roma. Possiamo dire che sono tornato sulle scene due anni fa quando Adriano ha ristrutturato “Yuppi du” presentandolo a Venezia. Mi hanno chiamato. La Sony si è interessata per il disco, che è uscito nel 2010.Praticamente ho ricominciato a cantare e a suonare dallo scorso anno.E’ quello che mi piace fare, anche per semplice divertimento, come faccio quando vado al ristorante La Cuccagna dove c’è una bella orchestrina, si mangia benissimo e si trascorre qualche ora in allegria. Terminata la cena, salgo sul palco e canto. E’ quello che amo fare.

Per il futuro il pubblico cosa si deve aspettare? Dipende dalla vita. Ho fatto un disco nuovo con la Sony, con sette nuove canzoni, “Nessuno è solo“. Poi ho fatto un film con un bravo e giovane regista napoletano Nicola Vicidomini, “De Sancta quiete”. Lui ora lo sta proponendo a Venezia come opera prima. Si tratta di un film originale, interessante.

Il 25 marzo sarà al Museo Crocetti con una serata “C’era una volta il Clan”, protagonisti gli anni Sessanta. Nostalgia per il Clan o per gli anni Sessanta? Per il Clan senza dubbio.

Stefania Giudice

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