“Tutto sbagliato, tutto da rifare”, come recitava Gino Bartali quando correva in bicicletta per vincere il Tour e nonostante la fatica trovava il tempo di ragionare sugli sconquassi, a volte sottaciuti, d’una certa classe politica. Che, comunque, non aveva a che fare con i nuovi “padroni de Roma”.
Qui ci si è sperticati a scrivere e a comunicare che la zona di ponte Milvio è in mano a questo o a quell’altro guappo di cartone, e quando sono stati fatti intendere scenari politici nell’area della movida romana, ci siamo accorti che mancavano all’appello solo i cattocomunisti, mentre fra fascisti, destrorsi, fanatici e figliocci del “Mortadella” pareva non ci fosse spazio perfino per sorseggiare uno spritz al bancone.
Signori, cancellate il passato fatto di tasselli d’un puzzle che al cospetto di ponte Mollo ha visto radunarsi nani, ballerine, amici degli amici, collusi con la politica, ricattatori, millantatori e adulatori.
Lì, in quel fazzoletto di terra allocato a due passi dallo stadio, che vive alle pendici della torretta Valadier e convive col traffico, c’è un’altra banda che se la comanda: quella dei sorci.
Che giocano, corrono, saltano e saltimbancano piacevolmente fra una fischiata di vigili e un clacson che suona, un “vaffa” all’indirizzo di qualche automobilista poco civilizzato e strisce pedonali rammentate solo dalla squadra di operai che le ha disegnate, a suo tempo.
Il grisatoio rosicchia e sguazza nella melma, nel fango, fra le macerie, forse anche in qualche rimasuglio di eternit, e se la suona e se la canta al punto che neanche arrivasse quel castigamatti del “gatto con gli stivali” sbaraccherebbe baracca e burattini.
Pare di stare a Topolinia, con buona pace di chi pensava (e scriveva) che da quelle parti stesse per nascere una nuova Cinghialopoli, la città dei cinghiali. Che si, ci sono anche loro, ma stanno più a nord ancora, zone franche dove l’animale passeggia amabilmente con la famiglia – ah, quanto sono carini i cinghialini! – e bisboccia fra rifiuti alimentari prelibatissimi e a chilometri zero, se è vero che le allegre famigliole di ungulati restano sempre lì, in zona.
Ma qui scriviamo del topo, fra puzza e paura della salmonella, telefonini che “sparaflashano” esemplari di “sorche” (ahò, a Roma la “topa” si definisce anche così) e frasi del tipo “dentro a ‘sta città manco i gatti lavoreno più”.
Così, coi sorci da una parte e i cinghiali dall’altra, stretti nella morsa delle nuove tribù dello struscio capitolino, i romani che s’avvicinano da quelle parti cominciano a rimpiangere l’era dei lucchetti di ponte Milvio, quando un pezzo di ferro diventò il simbolo dell’amore, perfino più romantico d’una poesia di Jacques Prévert. E’ proprio vero, si stava meglio quando si stava peggio.
Massimiliano Morelli
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