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Einsturzende Neubauten, nuovi edifici che crollano all’Auditorium

Galvanica Bruni

ein240.jpgEinsturzende Neubauten. Nuovi edifici che crollano. Anche se a crollare, domenica 30 novembre nel concerto della band tedesca all’Auditorium sono stati, ancora una volta, i preconcetti. E ben venga, perché niente è meglio di abbattere gli steccati tra le diverse forme d’arte. Blixa Bargeld e soci lo fanno da più di trent’anni e domenica sera ne hanno dato l’ennesima conferma.

Stavolta però è stato diverso. Hanno presentato una performance al limite del surreale portando in scena nientemeno che la Prima Guerra Mondiale, quella dei nostri nonni e bisnonni di cui quest’anno ricorre il Centenario dall’inizio, in un concept-show dai fortissimi significati.

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E allora l’Italia come i Balcani, Roma come Sarjevo, Bargeld come Gavrilo Princip.
Che la guerra cominci. Guerra di suoni, di lamenti. E infatti lo spettacolo (e il disco appena pubblicato) si intitola “Lament”, come quello degli internati nei campi di prigionìa tedeschi le cui registrazioni risalenti a quel periodo – tratte dagli archivi sonori della Humboldt University di Berlino e dell’Archivio di radiodiffusione tedesco – sono state riproposte in tutta la loro autenticità.

Ma Lament è anche il nome di un’antica forma musicale inventata da un compositore fiammingo del Rinascimento e che l’ensemble berlinese ha rielaborato in chiave moderna ribaltando l’idea stessa di concerto.

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Gli Einsturzende non sono nuovi a spettacoli “strani”, scioccanti, provocatori. Teatro espressionista e rock-show insieme. Allucinati e allucinanti. Come gli strumenti che usano: tubi metallici, bidoni, seghe circolari, accanto a quelli più tradizionali. Il futurismo cent’anni dopo il futurismo, per loro che, evidentemente, hanno un debole per le prime due decadi del secolo scorso.

E che siano ancora oggi all’avanguardia si capisce dopo pochi secondi, il tempo di venire inghiottiti dal buio non appena si abbassano le luci della Sala Santa Cecilia e il sinistro sferragliare di una catena riempie l’oscurità accompagnata dal suono urticante di punte metalliche sfregate su una grossa lamiera.

E’ l’inizio di un viaggio che parte nel 1914 e finisce nel ‘18 tra cavalcate ritmiche industrial, riproduzioni di comunicazioni telegrafiche ed effetti sonori lancinanti (tutto rigorosamente hand-played).
Brividi, scosse, reazioni al limite del fastidio fisico. E loro, sadici, se la godono martellando per due ore occhi, orecchie e cuori dei presenti rapiti dal fascino dell’apocalisse.

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Ma ancora più agghiacciante è la voce del leader (costretto da una caduta a cantare gli ultimi tre pezzi seduto su una sedia) che spacca in due la notte romana per ricordarci che l’umanità sa essere molto più perfida delle macchine, e sui figli ricadranno le colpe dei padri che hanno creato la moderna società industriale.

Lo dicevano nel 1985, con Halber Mensch, il loro album-manifesto, e lo dicono oggi con un disco e un tour che suonano come un monito: prepariamoci per l’esodo, come cantava Battiato, perché la storia si ripeterà. E sarà peggio per noi.

Valerio Di Marco

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