
“Enjoy The Silence“, l’estasi. “Stripped“, il giubilo. “Personal Jesus“, l’ascensione. “Never Let Me Down Again“,….il grano. Anche lui metafora spirituale della semina e del raccolto.
E’ l’effetto visivo di quando 70mila braccia (2 per ogni presente, a rigor di matematica e se l’occhio non inganna) si alzano in cielo e ondeggiano come un immenso campo di grano.
Succede sempre ai concerti dei Depeche Mode, ed è successo ieri sera allo Stadio Olimpico nella tappa romana della band inglese per il tour a supporto di “Spirit”, l’ultima fatica in studio.
Come sulle montagne russe
Lo show è stato pieno di quelle cose che succedono sempre ai concerti dei DM. Però è come salire sulle montagne russe: si sa che lo stomaco ne uscirà rivoltato, ma che brividi ogni volta. Anche ieri il trio di Badilson ci ha frullati per bene.
E pensare che c’è gente che a 55 anni sta già più di là che di qua, col fisico fradicio come un tramezzo di cantina ammuffito. Loro invece no.
Sarà che il rock è una cappa a prova d’invecchiamento. Vale per loro che lo fanno, certo, ma qualche residuo di beneficio si riverbera anche su di noi che ne siamo adepti. O almeno si spera.
Tutto alla perfezione
Siamo al quarto concerto dei DM all’Olimpico dal 2006. E’ il quarto tour di seguito che vi approda, per loro etichettati per anni come “band da palazzetto”. E sì che il loro live più famoso fu girato proprio in uno stadio, il Rose Bowl di Pasadena, anno di grazia 1988. Ma le etichette, si sa, sono difficili da scollare.
Ieri tutto è filato alla perfezione. Si dirà: hanno il pilota automatico. Ma è un pilota bravo. Dave Gahan parla poco con la lingua ma tanto col corpo, con lo sguardo. Una delle ultime rockstar. E che Dio ce lo mantenga.
Lo sanno anche gli Algiers, esibitisi in apertura. Il quartetto georgiano ha tra le sue tante fonti d’ispirazione proprio i DM. Nella mezz’ora a loro riservata hanno presentato i brani del nuovo album “The Underside Of Power”.
Politico, come anche politico è il nuovo (/vecchio) corso dei DM, che smettono con l’introspezione e guardano alle questioni del mondo rispolverando la verve politico-sociale che caratterizzò alcuni passaggi degli esordi.
In scaletta sono pochi i brani dall’ultima (prescindibile) fatica in studio, brani peraltro disseminati qua e là quasi come uno scotto da pagare di tanto in tanto tra una pietra miliare e l’altra.
Già al terzo passaggio, dopo l’apertura con le nuove “Going Backward” e “So Much Love“, il salto indietro è di vent’anni: “Barrel Of A Gun“, quella canna di fucile dentro cui il leader guardò metaforicamente quel giorno del 1996 in cui morì clinicamente per tre minuti a seguito di un overdose da speedball (mix di eroina e cocaina).
Secondo una leggenda metropolitana, il pezzo, tratto da “Ultra” (1997), inizia proprio con la prima frase che disse risvegliandosi dal coma: “do you mean this horny creep“. Ma nessuna biografia ufficiale ha mai confermato.
Ufficiale però è che oltre alla droga, Gahan in vita sua è sopravvissuto anche a un tumore alla vescica.
Subito dopo c’è “A Pain That I’m Used To“, “un dolore a cui sono abituato”, in continuità con quanto detto sopra. Qui la versione è leggermente diversa rispetto a quella pubblicata su “Playing The Angel“, del 2005.
E poi “In Your Room“, “World In My Eyes”, habitué delle scalette “depechiane”, ma sempre un bel sentire. E vedere.
I DM vanno anche visti
Il centro di tutto è Gahan ma d’effetto sono anche i video a corredo della scenografia affidati come al solito al fido Anton Corbjin, il fotografo e regista che reinventò l’immagine della band a metà degli Anni’80 permettendogli di uscire dal recinto della scena elettro-pop tutta synth e lustrini per vestirsi definitivamente di quell’alone gotico/depresso che diventerà il loro marchio di fabbrica.
A metà scaletta, come al solito, la scena se la prende Martin Gore, la mente dell’ensemble. Se i DM sono i DM lo si deve a lui, autore della gran parte di musiche e testi della band nata nel 1980.
I presenti lo sanno e infatti il biondo e riccioluto “Martino” è osannato dal “suo” pubblico non appena attacca “A Question Of Lust” in versione solo piano e, a seguire, “Home” in versione full band, splendida come su disco.
Gahan però è lì nelle retrovie, in sorniona attesa di riprendersi il posto. E allora eccolo scivolare di nuovo sul palco e relegare di nuovo il sodale a chitarra e tastiere per la seconda parte di show aperta da “Poison Heart” e poi “Where’s The Revolution“, robotico e notevolissimo brano di lancio del nuovo disco.
Segue un pokerissimo da sturbo che ci porta dritti alla fine del main set: prima la disturbata “Wrong“, poi tutti a ballare e cantare con la vecchissima “Everything Counts”, 1983. Altri tempi.
E negli ultimi tre atti ci si spoglia (“Stripped“), ci si gode il silenzio (“Enjoy The Silence“) e si ondeggia, appunto, come una distesa di grano (“Never Let Me Down Again“).
Finito? No, mancano i bis
Apre “Somebody“, cantata ancora da Gore, seguono le tormentate arie di “Walking In My Shoes” e una straordinaria cover di “Heroes” di David Bowie in versione “kraftwerkizzata”. Ma forse è meglio dire “depechata”, chè rende di più l’idea.
Coniare un aggettivo è appannaggio solo dei grandi e loro hanno l’autorità per rimasticare secondo il loro stile un brano leggendario senza risultare oltraggiosi.
A questo punto mancano due pezzi. La chiosa è “in blues” con “I Feel You” e “Personal Jesus“, che infiamma il catino dell’Olimpico facendo cantare “reach out and touch faith” anche alla Madonnina di Monte Mario.
Insomma ok, sarà pure stata sempre la stessa giostra ma – diamine! – dateci un altro gettone che vogliamo risalirci subito.
Valerio Di Marco
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