In scena al Teatro Olimpico di Piazza Gentile da Fabriano fino al 24 marzo, “Il Giro del Mondo in 80 Minuti” è il nuovo, accattivante, concerto dell’Orchestra di Piazza Vittorio. Prima auto-produzione dell’ensemble multietnica di venti artisti capitanata da Mario Tronco, lo spettacolo è un viaggio fantasioso ed affascinante, è una narrazione in musica e parole di migranti e vagabondi, è un delizioso inno alla vita, alla scoperta di noi stessi e all’incontro, declinato in sedici canzoni originali e coniugato in otto lingue.
“Non voglio dormire, voglio solo abbracciarti e sognare”: è il canto ipnotico della sirena Sylvie Lewis ad aprire questo magnifico concerto. Una melodia dolcissima per una voce magica: ecco l’incipit del racconto, l’inizio della storia che segna fin da subito una netta demarcazione fra le seccature della vita quotidiana e la vita apparsa sul palco un attimo dopo che si è fatto buio in sala.
Non capita spesso, a teatro o nei luoghi dello spettacolo. Succede con quelli bravi. Con quelli coraggiosi. La zattera comandata da Mario Tronco è quasi pronta per salpare e le regole sono chiare: il viaggio è gratis, la destinazione è ignota, il superfluo si butta a mare e solo una canzone può farti salire a bordo.
“L’unico bagaglio che puoi portare è tutto quello che non puoi lasciare indietro”, si potrebbe semplificare citando gli U2. Sì, perché l’unica valigia che si può portare e la canzone che si deve cantare non sono altro che la nostra personalità e i nostri sentimenti, la volontà vera di intraprendere il viaggio, i nostri ricordi e i nostri legami. Il peso netto finalmente liberato dalla tara. La ricerca di una casa lontana da casa o la riscoperta della casa che stiamo lasciando.
“Un giorno arriveremo in quel posto dove davvero vogliamo andare e cammineremo al sole ma fino a quel giorno i vagabondi come noi sono nati per correre”, diceva il giovane Springsteen (sempre sia lodato) di “Born To Run”, prima di “rallentare” e aggiungere altri memorabili capitoli sul viaggio nell’oscurità ai margini della città e all’interno di noi stessi.
Così, l’improbabile ed irresistibile gladiatore che sbarca il lunario facendosi fotografare con i turisti davanti al Colosseo, dopo aver letto che la barca di Tronco partirà alle 21, non ci pensa due volte e si precipita (?) a casa (ATAC, distrazione e contrattempi permettendo) a prendere la valigia e il suo strumento. Riuscirà ad arrivare in tempo?
E, mentre il gladiatore cerca di arrabattarsi per poter arrivare al porto in orario, sulla banchina si susseguono i musicisti e i cantanti, continuano ad arrivare i potenziali passeggeri. Ma non tutti vengono ammessi a bordo e in ogni caso nessuno può violare le regole. Il nocchiero Tronco li mette a posto o li manda via. Ma non li giudica mai con severità: se la tua canzone non è un granché, non importa. Quello che conta è volerla suonare o cantare davvero, quello che conta è il desiderio di spogliare la vita da tutto quello che non la riguarda, da tutto ciò che si è accumulato su di essa come una polvere invisibile ed insidiosa, da tutto ciò che è penetrato nelle nostre vene e e nella nostra carne come un veleno paralizzante e annichilente. Una valigia e una canzone. Un nuovo paio d’occhi per scrutare l’orizzonte, gli altri e all’interno di noi stessi.
Siamo tutti passeggeri e viaggiatori, in questo senso siamo tutti potenziali artisti. Ecco la nostra vita, ecco la nostra voglia di camminare, di stringere mani e di conoscere. “I cuori infranti e gli artisti resistono” – cantava Waters – e via, prendiamo il largo grazie agli artisti dell’Orchestra di Piazza Vittorio che, una dopo l’altra, snocciolano canzoni su canzoni (sedici brani originali, come detto all’inizio), dispongono e incastonano tasselli su tasselli, dipingono un sorprendente murale multiculturale che è una gioia da gustare con gli occhi dell’anima.
Com’è nella filosofia, nell’atto di fondazione e nelle corde dell’ensemble fondata e guidata da Mario Tronco, la contaminazione fra i generi musicali più disparati è la regola, così come è la norma l’incontro e l’abbraccio fra voci e lingue diverse.
Dalle coste del Mediterraneo all’Africa, dall’India al Sud America, da nord a sud e da est a ovest, la bussola è impazzita o, fate voi, è rinsavita, determinando una babele armoniosa di suoni e di voci, un tappeto magico che dimostra come non si debba temere l’altro e aver paura dell’incontro, una lampada d’Aladino che rivela che l’accorciamento delle distanze rispetto a tutto ciò che riteniamo estraneo non solo è una possibilità reale, ma è anche e soprattutto un’occasione per crescere, una nuova maniera per amare e passare (volendo usare un linguaggio da videogame) al livello successivo.
“È in noi che i paesaggi hanno paesaggio, i viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo”: è Fernando Pessoa a riassumerci il senso di questo spettacolo, che parla direttamente all’anima delle persone. Applausi e…non andate via troppo in fretta: come in tutti i concerti – anche in quelli originali, atipici e magici come questo – è contemplato il momento dei bis. Vi aspetta una chicca che è un distillato di leggerezza benefica, come il resto dello spettacolo.
Giovanni Berti
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