La scomparsa di Michela Murgia lascia un vuoto che fa pensare. Non tanto per la scomparsa di una persona, scrittrice apprezzata che nel 2009 diede alle stampe “Accabadora”, uno dei libri più eleganti dedicati alla Sardegna scritto negli ultimi cinquant’anni.
La sua morte fa pensare a quanto sia stata repentina e veloce la sua malattia, neanche il tempo di sapere che era malata che la “comare secca” se l’è portata via.
Qui la sua dipartita fa pensare, stavolta come non mai, a quanto sia effimera la vita. Classica la frase “non si può morire a cinquantuno anni”, che bene o male sussurriamo ogni volta che qualcuno passa a miglior vita. Inevitabile il pensiero successivo, quello del vuoto cosmico che ci assale.
Michela, sarda di natali e cuore, s’era sposata qualche giorno fa, sottolineando come il suo matrimonio fosse un obbligo per salvaguardare i diritti delle persone.
Per non cadere nella trappola di quanto accaduto qualche anno fa dopo la strage di Nassirya, anno 2003, quando una donna non sposata, ma compagna di uno dei caduti, venne trattata come “persona di serie B”, perché la sua unione non aveva l’ufficialità del sacro vincolo matrimoniale.
Forse Michela, nel suo gesto di sposarsi fra una tac e una iniezione di momentaneo sollievo, deve aver pensato proprio a chi, senza una vera al dito, si ritrova senza diritti.
Muore Michela, ma non muoiono le sue battaglie, mentre le sue parole restano, scritte nero su bianco, per leggere fra le righe altre mille e più battaglie da iniziare a combattere.
Massimiliano Morelli
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