
Ci avevamo messo diversi giorni a preparare i ‘papiri’. Quelli che dovevamo leggere ai professori nella cena dei saluti prima della maturità. Ma erano venuti proprio bene e molti di noi ne hanno conservata una copia e ancora ogni tanto ce li guardiamo con un pizzico di orgoglio.
Maturità al Lucrezio Caro, commissione esterna, luglio del ‘65. Ma siccome non è vero che gli anni passano veloci da vecchi ma è vero, invece, che, da vecchi, degli anni che passano te ne accorgi, mentre a vent’anni, praticamente, no, ne erano passati quasi una dozzina quando Don Gianni chiese ad alcune giovani coppie di Santa Chiara di occuparsi della preparazione dei fidanzati, voluta dalle riforme conciliari. Scelte ovviamente tra quelle che secondo lui avevano deciso di sposarsi in chiesa con sufficiente consapevolezza. E noi, che vent’anni non li avevamo più, ma non ce ne eravamo accorti, ci sentivamo ancora molto giovani e abbastanza carichi di entusiasmo per trasmetterlo ai fidanzati.
In quei dodici anni, a Vigna/Santa Chiara, ne erano successe di cose. C’erano stati matrimoni, nascite, assunzioni, ma anche già divorzi e dimissioni. E purtroppo pure qualcuno che se n’era andato troppo presto.
Il tempo passa
Dodici anni in cui la parrocchia aveva assunto la sua connotazione definitiva. Era scomparso anche il campetto dietro la porta posteriore che per qualche anno aveva sostituito il nostro campetto di pallone sotto l’Istituto di Cerealicoltura, davanti a casa mia, all’angolo con piazza Giochi. Era stato l’ultimo pezzo a resistere, prima di diventare il parcheggio della domenica.
A ridosso del muro che lo chiudeva verso il tramonto erano rimasti sterpaglie e cumuli di terra che erano la passione della mia Filli, la cockerina che mi portavo appresso quando ci andavamo a giocare. Fillide, poi diventato Filli, era il nome che gli aveva voluto dare mia madre, l’archeologa grecista.
Un giorno – come sempre, negato con la palla al piede, ero in porta, ma gli avversari stavano sempre nella mia area e non mi potevo distrarre – Filli trovò in mezzo ad un rovo un gatto morto e putrefatto. Più tardi, De Pedrini, il grande veterinario che seguiva i nostri cani, mi spiegò che è nel DNA dei cani da caccia. Serve per nascondere il proprio odore.
E posso garantire che l’odore del cane proprio non si sentiva più. Ma la puzza del gatto si sentiva anche a chilometri di distanza. Nell’ambulatorio di De Pedrini, in fondo a Via di Vigna Stelluti, c’era anche una toilette e Filli ci rimase un paio d’ore. Sul marciapiedi per arrivarci il passeggio mi si apriva davanti come il Mar Rosso agli Ebrei.
Quell’idea di Don Gianni…
Da quell’idea di Don Gianni sulla preparazione al matrimonio nacque così un gruppo che ben presto raggiunse una notevole sintonia. Anche perché ci conoscevamo quasi tutti abbastanza bene.
Poi però Don Gianni si rese anche conto che nonostante la sintonia, il gruppo aveva bisogno di un comune sentiero da percorrere nell’affrontare i fidanzati e cercare di farli convogliare sull’idea cristiana del matrimonio. E così affidò al gruppo, allargato con alcuni membri single, ma spiritualmente legati alla filosofia pastorale di Don Gianni, l’incarico di redigere un documento su cui lavorare insieme con le neo-coppie.
Era la seconda metà degli anni ‘70. Forse il decennio che è stato contemporaneamente il più bello e il più brutto della storia del nostro Paese.
Il più bello perché quello in cui si è vista una passione per la Partecipazione – parola allora molto di moda – che molti credevano impossibile per gli Italiani. Il più brutto perché le Brigate Rosse e gli anni di piombo hanno messo in moto, non casualmente, l’inesorabile e inarrestabile marcia del riflusso che stiamo ancora pagando. Il successo delle televisioni commerciali, di cui tanto si discusse, fu un effetto e non una causa.
Il gruppo si riuniva un paio di sere a settimana. Non c’erano sempre tutti, ma si andava avanti lo stesso. Non fu una pratica veloce. Ci mettemmo qualche mese per arrivare ad un documento condiviso che tenesse conto del Concilio e che convincesse anche il Boss. A noi piaceva chiamarlo così. Anche se lui diceva sempre che il Boss stava lassù, col dito verso il soffitto.
La sostanza in realtà era semplice. Due giovani in procinto di sposarsi, se decidevano di farlo in Chiesa, dovevano essere consapevoli di cosa questo significava. O diventarne.
Non era ammissibile che la scelta del matrimonio religioso fosse dovuta alla sola ricerca di una coreografia decisamente più bella. Bisognava intanto rendersi conto che i ministri del matrimonio sono gli sposi. Che questo significava sposarsi davanti a Dio. E che ciò comportava la coscienza della sacralità del matrimonio cristiano.
Non si può e non si deve ignorare la possibilità dell’errore. Siamo fallibili esseri umani. Ma se ci si sposa davanti Dio, ha senso farlo solo se si è convinti, in quel momento, di unirsi per la vita. Per spiegarlo ci vollero una decina di pagine. Sono rimaste in Parrocchia per anni a disposizione dei fidanzati. “Per Chi Crede”.
Ma non fu un gran successo
Per festeggiare la fine del documento, andammo ad abbuffarci a cena in un ristorante di Rignano Flaminio. Parecchi anni dopo, in una delle frequenti chiacchierate che Don Gianni ed io facevamo nel suo studio a piazza Navona, tornammo indietro con i ricordi e mi confessò che in realtà non era stato poi un gran successo.
La presa di coscienza del significato della profondità del matrimonio cristiano era stata scarsa. E le coppie che decidevano di sposarsi in chiesa perché era più ‘bello’, erano continuate ad esistere, forse in numero leggermente inferiore. Qualche sacrificio di troppo da affrontare…
Quel gruppo andò avanti per qualche anno. Almeno fino al ’78. L’attentato e la morte di Moro, che ogni mattina si faceva accompagnare a Santa Chiara per ascoltare la messa delle 9, e che nei primi piani delle BR doveva essere sequestrato proprio a piazza Giochi, hanno messo la parola fine a molti dei processi migliori che stava portando avanti il nostro Paese.
Forse tra questi c’eravamo anche noi. I giovani adulti di allora che persero buona parte della loro carica riformatrice. Quella che credevamo inesauribile, e di cui si sono perse le tracce. Forse vale la pena di ripetere ‘non casualmente’.
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!Filli trovò in mezzo ad un rovo un gatto morto e putrefatto. Più tardi, De Pedrini, il grande veterinario che seguiva i nostri cani, mi spiegò che è nel DNA dei cani da caccia. Serve per nascondere il proprio odore.”
Mi scusi Gentile Michele Calvio, ma ho l’impressione che in questo periodo manchi qualcosa.Ho forse è la mia ignoranza che non mi fa comprendere in pieno la frase.
Cordiali saluti e complimenti
Giancarlo Venza
Gentile Giancarlo, scuse superflue e comunque accettate. Complimenti super accettati e graditi. Certo, manca un passaggio. Nella prima versione, io avevo scritto quello che Filli aveva fatto dopo aver trovato la carogna del gatto. Poi l’ho eliminato perché ho pensato che leggere: “si era rovesciata e rigirata varie volte sul quella schifezza fino a riempirsi il pelo di robaccia putrefatta, purulenta e puzzolente” avrebbe potuto urtare la sensibilità di qualche lettore; e allora l’ho cancellato. Sperando che si capisse dal contesto quello che era successo. Ma forse non era abbastanza chiaro. Grazie comunque per aver perso del tempo a leggermi. Saluti cordialissimi.
Michele Chialvo
E’ sempre un piacere leggerla, non perdita di tempo! Fra l’altro siamo quasi coetanei sia come anagrafica sia come abitanti di “oltre ponte Flaminio” e quindi con parecchi ricordi comuni.