Non ricordo quando la vidi per la prima volta, ma è certo che me ne innamorai come tutti i bambini dell’epoca. Anni Settanta, tv in bianco e nero, Pal e Secam sarebbero entrati nelle nostre vite una decina d’anni dopo, così come le “carrambate” e i fagioli nel barattolo.
La scomparsa di Raffaella Carrà è diversa da quella di Alberto Sordi e Gigi Proietti, perché Albertone e Mandrake eravamo abituati a vederli l’uno al cinema, l’altro al teatro, per farla breve “li andavamo a cercare”.
Raffaella no, lei entrava nelle nostre case, in punta di piedi, con discrezione ed eleganza, era con noi a cena il sabato sera quando Canzonissima incollava gli italiani davanti alla televisione al pari delle partite della nazionale.
Altri tempi, due canali, lo share non era l’incubo dei protagonisti delle serate di quella che cinquant’anni fa era ancora mamma Rai, il sabato non c’era cinema che tenesse, il calcio aveva il banco la domenica pomeriggio, gli apericena se ce li avessero proposti in quegli anni li avremmo boicottati.
Epoca diversa, quella dei tatuaggi appannaggio dei galeotti, mentre oggi chi non indossa un tattoo è una mosca bianca.
Cresciuta a “pane e Musichiere”, ha attraversato sessant’anni delle nostre vite, prima attrice-bambina, poi nostra signora della televisione. Personaggio trasversale e amato da tutti, se Gigi Riva (cui lei dedicò una canzone nel 1970) è l’hombre vertical, lei lo è stata al femminile. Una sorta di mujer vertical.
La vita corre veloce, faceva da “spalla” a Topo Gigio, Tiziano Ferro le ha dedicato una canzone e lei s’è presentata al Palalottomatica per ballarla insieme a lui quella canzone, nel frattempo è stata regina in Spagna e in Sudamerica, David Letterman la intervistò nel 1986, quando lo sbarco negli Stati Uniti la trasformò in icona pure dall’altra parte dell’oceano.
Ha vissuto mille mila vite, e adesso che è passata a quella che genericamente definiamo “miglior vita” viene da pensare che ci viene a mancare qualcosa.
Massimiliano Morelli
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