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    Marillion, trionfo a Roma

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    Grande e meritato successo per i Marillion che, nella serata di giovedì 12 dicembre, si sono esibiti insieme ad alcuni “amici dell’orchestra” sul palco dell’Auditorium di via della Conciliazione.

    Ripercorrendo quasi tre decadi di onoratissima carriera, la band britannica in formazione allargata ha regalato al pubblico capitolino due ore e venti minuti di autentica e rara bellezza.

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    Accompagnato da un ensemble di sei elementi, il gruppo capitanato da Steve Hogarth ha proposto agli spettatori undici brani, lunghe suite estratte dallo sterminato catalogo “post Fish” (chiamiamolo così, per semplicità) nelle quali i suoni del rock-prog sono stati impreziositi dalle suggestioni della musica sinfonica, un innesto riuscito che ha donato nuove coordinate a parole e note, allargato lo scenario e gli orizzonti dei classici in scaletta, espanso i suggerimenti per l’anima e moltiplicato le emozioni.

    Toccante, raffinato ed articolato, il concerto si è snodato lungo le vie dell’impegno civile, sociale e politico, è avanzato per paradigmi esistenziali, ha raggiunto vette elevate di poesia ed offerto momenti di intensa introspezione sull’individuo e il suo cammino nel mondo.

    Nella vita nessuno se la cava senza un graffio: l’oscurità è sempre in agguato, possiede diverse forme, si manifesta con modalità differenti e abita molti “luoghi”. L’oscurità è dentro di noi, arriva dalle relazioni interpersonali, si nutre dell’indifferenza e dei soprusi, ci aggredisce attraverso la brama di potere e il cinismo dei “nuovi re”.

    Tanti racconti su più livelli, quelli proposti dai Marillion, ma che, poi, ne racchiudono uno solo: siamo sulla stessa barca e siamo tutti uguali, in principio e alla fine. Ma nel mezzo c’è questo mondo, che, con la sua ostilità e le sue ingiustizie, mescola le carte, fa smarrire la strada, paralizza o indirizza i nostri passi.

    Le canzoni dei Marillion sono battaglie per la luce, istantanee dei tempi e di prevaricazioni senza tempo, indici puntati verso le angherie del nuovo capitalismo e del neo liberismo, riflessioni profonde sull’individuo e il suo rapporto con l’altro, sprazzi di poesia e di speranza che galleggiano in mezzo allo spazio buio e avverso, film in bianco e nero che includono scene dai colori caldi e cangianti.

    E, allora, ripercorriamolo insieme, pezzo per pezzo, questo magnifico show che ha conquistato senza riserve il pubblico dell’Auditorium di via della Conciliazione.

    Il concerto canzone per canzone

    Si comincia alle 21.16 con Gaza, il lunghissimo brano di apertura di Sounds That Can’t Be Made (2012) che descrive con vivido realismo le condizioni drammatiche ed estreme nelle quali continuano a vivere i palestinesi: “quando ero giovane, tutto sembrava un gioco / vivere qui non mi ha portato nessun senso di vergogna /ma ora che sono più vecchio, inizio a capire / una volta avevamo case, una volta possedevamo territori / fecero piovere proiettili su di noi mentre le nostre case crollavano / eravamo sotto le macerie, terrorizzati”.

    La canzone non è, però, contro il popolo ebraico e non ammicca alla violenza (“per ogni pietra lanciata da una testa calda ne tornano indietro cento”), solleva interrogativi importanti (“quando la gente sa di non avere futuro, si può biasimare se non riusciamo a domarla?”) e si avvia alla conclusione con una certezza dolorosa, un’ invocazione rimasta inascoltata per lungo, troppo tempo: “essere obbligati a vivere in questo modo è semplicemente ingiusto”.

    La band ha già ingranato, dal vivo il pezzo è più potente e sinistro che mai: Steve Hogarth alla fine lo dedica a Mike Pompeo, il segretario di stato USA. Chi vuole capire, capisca.

    Arrivano poi i toni introspettivi e oscuri che descrivono in maniera così incisiva l’ossessione d’amore narrata in prima persona in Beyond You (Afraid of Sunlight, 1995): “non posso vivere con me stesso, non posso vivere con me stesso, non posso avere un aiuto, cerco di volerlo, ma non riesco ad andare oltre te”.

    Con la successiva Seasons End, tratta dall’omonimo album del 1989 (il primo con il cantante Steve Hogarth), i Marillion declamano ancora una volta il loro manifesto ambientalista: “racconteremo ai figli dei nostri figli perché siamo diventati così grandi e siamo arrivati così in alto / abbiamo lasciato le nostre orme sulla terra e abbiamo aperto un buco nel cielo / spiegheremo loro come abbiamo cambiato il mondo e il modo in cui abbiamo domato il mare e le stagioni che non conosceranno mai”.

    Nella resa live si mettono in evidenza le tastiere martellanti di Mark Kelly, mentre gli archi del quartetto tutto al femminile “In Praise of Folly”, il corno francese di Sam Morris e il flauto di Emma Halnan aggiungono al brano suggestioni classiche che evocano le sofferenze della Terra, così maltrattata dall’uomo.

    Dal bordo del palco Steve Hogarth si guarda rapito gli “amici dell’orchestra” e, alla fine dell’esecuzione, li presenta. “Abbiamo due violini, in caso di emergenza”, dice scherzando al pubblico.

    Trovare la risposta è un’ossessione umana, sarebbe lo stesso se tu parlassi con le pietre e gli alberi e il mare, perché nessuno sa e così pochi possono vedere che ci sono soltanto bellezza e premura e verità oltre l’oscurità”: è il momento delle toccanti riflessioni sulla perdita contenute in Estonia (This Strange Engine, 1997).

    L’introduzione con gli archi è di una bellezza infinita, il pezzo è la meraviglia di sempre, Steve non sbaglia una nota. Applausi, applausi. E commozione, quando con un’intensità eccezionale, canta: “nessuno ti lascia quando tu vivi nel suo cuore e nella sua mente, e nessuno muore, se ne va soltanto dall’altra parte”.

    Dopo che il bassista Pete Trewavas mostra tutto il suo talento nella successiva You’re Gone (Marbles, 2004) arriva uno dei momenti più significativi e tosti dell’intera serata.

    The New Kings (F.E.A.R., 2016) è una critica senza appello del capitalismo moderno, una fotografia spietata del neo liberismo britannico (e non solo), delle menzogne e delle sperequazioni sociali ed economiche che esso reca con sé.

    Appuntita come una freccia, questa lunga suite viene declinata nelle sue quattro parti: nella prima, Fuck Everyone And Run, ecco il quadro della situazione: “noi siamo i nuovi Re, solchiamo i nostri mari di diamanti e oro… facciamo come vogliamo mentre voi fate ciò che vi viene detto”.

    E, come se non bastasse, ecco l’insulto beffardo che gli attuali padroni della Terra rivolgono alle masse: “il nostro mondo orbita intorno al vostro e si gode la vista: da questa altezza non vediamo i bassifondi e i barboni per strada… siamo troppo grandi per cadere e quando lo facciamo siete voi che ci rimettete”.

    La faccia di Hogarth è un trionfo di derisione e arroganza: i “nuovi re” non si accontentano di prendersi tutto, vogliono e devono strafare, umiliare la gente dopo averla spogliata dei diritti e della dignità. E il suo volto, come il suo cantato, lo raccontano alla perfezione.

    Mentre, poi, nella seconda sezione, Russia’s Locked Doors, si scende nello specifico e si identificano i “nuovi re” (anche) con gli oligarchi russi, nella terza, A Scary Sky, si sottolinea la sensazione di impotenza della gente: “non so se riesco a credere nelle notizie: possono fare qualsiasi cosa al giorno d’oggi”.

    Nella quarta e conclusiva parte, Why is Nothing Ever True?, si rivolge uno sguardo al passato, al tempo in cui le persone erano sicure di appartenere ad una collettività e si cantava l’inno nazionale senza sentirsi usati o provare vergogna. Oggi tutto questo non c’è più, la gente vive soltanto per accrescere il benessere e il potere dei nuovi re.

    La chitarra di Steve Rothery è tagliente più di cento lame, la batteria di Ian Mosley è furibonda, la band va come un treno, dritta al suo scopo, e pennella ancora una volta una distopia diventata realtà.

    Applausi, applausi, applausi e, dopo, si cambia decisamente registro perché è il turno di due ballate di straordinaria bellezza ed intensità.

    Ecco i toni romantici, gli afflati poetici e la speranza di superare le incomprensioni contenuti in The Sky Above The Rain (Sounds That Can’t Be Made): forse parleranno / anima ad anima / testa a testa / cuore verso cuore / gli occhi negli occhi / alzandosi verso quello spazio blu sopra le nuvole / dove i problemi muoiono / e le lacrime si asciugano… in quel posto dove il sole non smette mai di splendere / La pioggia è sotto di noi”.

    Ecco, poi, gli interrogativi dolorosi di Afraid of Sunlight (Afraid of Sunlight): “come siamo arrivati ad aver paura della luce del sole? Dimmi, ragazza, perché tu ed io siamo spaventati dalla luce del sole?”.

    Bellezza, bellezza allo stato puro, ma non è finita perché subito dopo arriva sua maestà The Space… (Seasons End, 1989), un saliscendi vertiginoso sulle sette note, un crescendo senza fine di emozioni e sensazioni, una gita interminabile nell’universo, una dichiarazione d’amore infinito per l’umanità.

    Ogni individuo, ognuno di noi, non è che l’altro. Tutti devono sapere che ciascuno di noi vive e ama e ride e piange e mangia e dorme e cresce e muore: le persone del mondo sono tutte uguali.

    Sono le 22.55, il pezzo chiude lo show prima dei bis con il pubblico dell’Auditorium tutto in piedi a spellarsi le mani.

    Passa qualche minuto e la band torna in scena. La lunga e struggente narrazione inclusa in Ocean Cloud (Marbles) precede la potenza e la gentilezza di This Strange Engine . L’orologio segna la 23.36, la band ringrazia e se ne va.

    Worth paying to see?”, c’è scritto sulla parte posteriore della giacca di Steve Hogarth. Sì, senza dubbio, ne è valsa la pena. Stasera si replica a Padova: se potete, approfittatene.

    Giovanni Berti

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    10 COMMENTI

    1. Visti sia all’ auditorium parco della musica e in quello di via della conciliazione a Roma due grandissimi concerti da parte si una band che ho sempre amato e che continuerò ad amare per sempre. Grazie marillion.

    2. Purtroppo per un lutto (la mamma) non potrò andare a Padova per il concerto.
      Conosco però molto bene il gruppo in quanto è il mio preferito in assoluto è lo seguo da oltre 20 anni .Volevo ringraziare Giovanni Berti per la sua recensione perchè ha parlato dei Marillion e dei suoi brani come io li sento ma come non sarei capace a raccontarli così bene.
      Per fortuna che esistono questi artisti che credono nel vero rock progressive e non si suicidano come i vari chris martin. ……..volutamente minuscolo.

    3. Io ero li, presente con 4 amici.
      Partiti dalla Sardegna per andare ad ascoltarli e vederli dal vivo, loro mai neppure ascoltati.
      Ne siamo rimasti entusiasti ed appagati.
      Ci hanno ripagato con la loro musica.
      Grandi in tutto, nonostante non abbia visto neppure una locandina del loro concerto a Roma.
      Ci tenevo moltissino a essere presente.
      Grazie a tutti i componenti, serata indimenticabile.

    4. Condivido. Ho vissuto questo meraviglioso concerto con mio figlio dopo oltre 1000 km di viaggio. (siamo partiti da Palermo esclusivamente per vedere ed ascoltare i Marillion) non credo esistano oggi gruppi capaci come loro di miscelare contenuti profondi resi in forma poetica con musiche intense profonde ed armoniose eternamente moderne. L’esecuzione dal vivo è incredibilmente più bella e coinvolgente delle versioni da studio. Steve Hogart si impegna intensamente n modo commovente riuscendo a far vibrare tutte le corde dell’anima. Grazie. Grazie di esistere.

    5. Mi aggiungo ai commenti precedenti condivido il gruppo dal vivo con un Hogarth scatenato da il massimo visti sia a Roma al parco della musica due anni fa sia a Londra al R.A.H sia due anni fa sia in novembre scorso e a Padova l altra sera e canzoni splendide come Season End , Estonia sono rare perle .
      Da vedere e rivedere ancora e sempre !

    6. Da Reggio Calabria:
      Smonto notte alle 7.30 dell’11 ed alle 17.30 è Roma. Il 12 In Paradiso con i Marillion. Il 13 sera sono di nuovo al lavoro nella mia città!
      L’amore per la musica non ha barriere. Nel mio caso,non avrei potuto perdere i Marillion.
      Da una frase prelevata dal film Oriente Express con Tom Hanks: Non è importante sapere dove arriverà il treno ma è importante prendere quello giusto,i Marillion !!!

    7. partito da Cagliari per vederli dal vivo con mia moglie che li conosceva davvero poco.
      siamo rimasti entusiasti dalla loro performance con mia moglie decisamente “fulminata” dai brani di Gaza e Space in particolare esaltati da una acustica fenomenale
      Tutto grandioso
      Piero

    8. Sono una delle fortunate.. presente sia a Roma che a Padova.. un Bis pazzesco come nel 2017 Roma/ Milano.. da pochi anni innamorata dei Marillion e del progressive da Verona 2016 un battesimo all’aperto Fantastic!!!!!
      Poi fino alle origini.. Genesis ed altro..ringrazio chi mi ha aperto il cuore a tutto questo. Xxxxx

    9. C’ero anch’io ….li seguo ai concerti da stazione birra (roma) in poi ed e’ sempre una meraviglia ascoltarli quello che non mi spiego e’ perche’ ci vogliono mesi di prenotazione per un concerto di circa 1600 persone quando meriterebbero un sold out gia’ alla notizia di un loro concerto evidentemente siamo rimasti in pochi ad apprezzare questo genere di musica semplicemente FAVOLOSO (si vede che sono pazzo di loro?) Certo uno/due pezzi dell’era Fhis son sarebbero guastati ma va bene così, unica nota stonata non hanno suonato NEVERLAND un vero peccato ma capisco che non sono un jukebox dove scegliere i brani . La domanda ora e’ questa: a quando un nuovo disco inedito?? Forever MARILLION!!!!!!!!!

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