
Niente, gli U2 non ce la fanno proprio a essere nostalgici e basta, no. Devono sempre come minino raccontare il presente, con le antenne puntate verso il futuro.
E’ quanto è successo anche allo Stadio Olimpico domenica 16 luglio, seconda data romana – dopo quella di sabato – del tour che la band irlandese sta tenendo per celebrare il trentennale del suo disco più famoso, “The Joshua Tree”.
Per l’Italia hanno scelto Roma, come trent’anni fa quando aprirono la leg europea con il concerto allo Stadio Flaminio che fece gridare al terremoto.
E come allora è stato un bagno di folla, una doppia celebrazione da brividi. Straordinari loro per impatto, pathos, empatia. E straordinario il pubblico, che ha risposto all’appello cantando, urlando, saltando, dall’inizio alla fine.
Non è stato solo un tributo
Il The Joshua Tree 2017 ha poco o niente a che spartire con l’omonimo show del 1987. A partire dall’esecuzione in sequenza di tutto l’album che gli dà il nome. Neanche allora lo suonavano per intero.
Basti pensare che “Red Hill Mining Town”, brano apripista del lato B (allora si parlava ancora di facciate), non era mai stata suonata dal vivo e l’hanno rispolverata adesso, in un arrangiamento diverso, più beatlesiano, e più alla portata della voce di Bono.
Bono che non è più l’animale da palco di allora, è più statico, più riflessivo, ma ti porta ancora via con un solo gesto. Se gli stacchi gli occhi di dosso è solo per guardare gli effetti e la scenografia, minimali ma solo per gli standard U2.
La tecnologia c’è eccome
La scena è sovrastata da un enorme schermo video che percorre il palco in tutta la sua lunghezza.
Vi scorrono le clip curate dal fido Anton Corbjin, fotografo e regista amico della band che nel 1987 realizzò il mitico servizio fotografico per la copertina dell’album a cui stanno rendendo omaggio.
E un lato dello schermo è occupato proprio da una gigantografia dell’albero di Giosuè pronto ad accendersi quando sarà il momento.
Sì perchè lo show è diviso in set. C’è la parte dedicata al disco ragione del tour, ok, ma c’è anche un prima e un dopo.
Il prima inizia con la band in mezzo alla folla. Dal palco principale parte infatti una passerella che conduce ad un palco più piccolo nel parterre a forma pure lui di chioma di albero.
L’effetto visivo dall’alto è quello della proiezione dell’ombra della pianta di cui sopra.
Il concerto
I quattro entrano in scena alle 21:30 percorrendo la passerella alla spicciolata sulle note di “Whole Of The Moon” dei Waterboys che riecheggia dalle casse.
Il primo è Larry, che si sistema alla batteria e parte con il leggendario attacco di “Sunday Bloody Sunday”. Una mitragliata che infiamma l’Olimpico e fa rombare i 60.000 presenti, tutti sintonizzati sulla stessa frequenza e tutti quanti, dalle prime alle ultime file fin sugli spalti, a intonare il coro prima dell’arrivo di Bono.
Incredibile la partecipazione, il trasporto, l’enfasi del pubblico. Ci credono tutti e ci credono forte. La band ricambia tanto amore ridando lustro a un brano che di anni ne ha 34 ma sembra stato scritto ieri per quanta è la carica che ci mettono.
Anche “New Year’s Day” è tiratissima, seppur in tonalità più bassa rispetto all’originale, per venire incontro alle martoriate corde vocali del singer.
Il terzo brano è una sorpresa. “A Sort Of Homecoming” è una delle due varianti in scaletta rispetto alla sera precedente (l’esclusa è “Bad”) e in questo tour era stata eseguita pochissime volte. Ma non poteva mancare a Roma, che per loro è sì – come sempre – “una specie di ritorno a casa”. A seguire, l’immancabile “Pride”, anche lei rinata a nuova vita.
Poi succede qualcosa. Mentre il pubblico continua cantare gli “ooh-ooh” del famoso brano dedicato a Martin Luther King la band imbocca la passerella a ritroso in direzione palco principale.
Lo schermo, rimasto spento fino ad allora, si accende di un rosso vivissimo e l’albero s’illumina.
In sottofondo parte l’inconfondibile organo di “Where The Streets Have No Name” e realizziamo di essere entrati nella terra di “The Joshua Tree”. Lacrime a fiumi.
Il nodo fatica a rimanerci strozzato in gola e i singhiozzi escono come palle di fuoco incandescenti. Sensazioni indescrivibili che solo a un concerto degli U2. E’ una messa. Ma una messa in musica, la nostra musica, “il più bel suono del mondo”.
I minuti passano e non ce ne rendiamo conto. Canzone dopo canzone è un po’ come mettere su il CD e ascoltare il disco. Ma dal vivo è infinitamente più bello. Anche perchè i brani risplendono di luce nuova.
Non è più l’America degli Anni ’80 a essere raccontata ma quella di oggi. C’è un filo che le lega e in fondo non c’era momento migliore per quest’operazione di recupero.
Tutto suona nuovo, inedito. I primi tre brani li avremo ascoltati centinaia di volte dal vivo, in alcuni casi l’abitudine era quasi propedeutica alla noia, ma così, in quest’ordine e suonate con questo trasporto, sembra di ascoltarli per la prima volta.
Discorso a parte merita “Bullet The Blue Sky”, che mantiene da trent’anni tutto la sua carica politica: allora erano strali contro l’occupazione USA del Nicaragua, oggi potrebbe essere qualsiasi guerra in corso, chè tanto il materiale non manca.
Così come un ulteriore discorso a parte merita la dolcissima “Running To Stand Still”, che riappare in concerto dopo dodici anni.
Finito il lato A, si cambia verso. Il lato B è la crema di questo show, perchè tra brani mai suonati dal vivo e rarità assolute, negli anni lo abbiamo sentito veramente poco.
Vale per la suddetta “Red Hill Mining Town” ma anche per le altre. “In God’s Country” è un regalo giacchè dal 1987 solo in una manciata di date l’avevano appena accennata; “Trip Thorugh Your Wires” farebbe impallidire perfino i Rolling Stones dei tempi d’oro; e “One Tree Hill” tocca nel profondo a partire dal ricordo di Greg Carroll, amico della band morto in un incidente motociclistico nel 1986 e a cui l’album era dedicato.
Bono tra una canzone e l’altra si ferma e parla, spiega le canzoni, le introduce. Non tutti conoscono “the dark side of The Joshua Tree”.
E a proposito di parti oscure, ecco “Exit”, il pezzo “maledetto” degli U2 (ispirò l’omicidio di una conduttrice TV alla fine degli Ottanta).
Fu suonato per tutto il tour originale, una versione da leggenda finì anche sul film “Rattle And Hum” dell’anno successivo, ma poi fu abbandonata. Siamo cresciuti chiedendoci se l’avrebbero mai risuonata. Ecco la risposta.
A chiudere, “Mothers Of The Disappeared” brano sui desaparecidos la cui versione dal vivo in diretta TV in Cile nel 1998 contribuì a togliere il velo sui 17 anni di silenzi dell’era Pinochet.
Piccola pausa ed ecco i bis
Si parte ancora con la guerra. “Miss Sarajevo” è aggiornata alla tragedia siriana, sullo schermo scorrono immagini di un campo profughi e la voce registrata di Luciano Pavarotti spacca in due la notte romana, come a Modena nel 1995 quando il tenore la cantò al “Pavarotti & Friends” insieme a Bono, The Edge e Brian Eno.
O come nella capitale bosniaca due anni dopo, quando allo storico concerto degli U2, serbi, croati e bosniaci si ritrovarono per la prima volta a cantare tutti insieme sulle note – ancora una volta – del “suono più bello del mondo”, quella volta ancora più bello perchè prendeva il posto delle bombe.
A questo punto, dopo tanta sofferenza, un pò di divertimento ci sta bene. E allora ecco il trittico “tamarro”: in sequenza, “Beatifiul Day”, con inedito intermezzo “daftpunkiano”, “Elevation” e “Vertigo”. Sì, divertimento. Perchè in fondo “rock ‘n’ roll is entertainment”.
E ci si diverte ancora con “Mysterious Ways”, prima dell’annunciazione del futuro. Il futuro è delle donne. E parte “Ultraviolets”, mentre sullo schermo scorrono i primi piani delle grandi donne della storia. Ci sono anche le nostre Emma Bonino e Giuseppina Nicolini.
Bono ringrazia il nostro paese per l’accoglienza ai migranti, con menzione speciale per la Guardia Costiera. Poi ricorda la vecchia campagna per l’annullamento del debito e la sua organizzazione One.org che ovviamente non può che precedere l’omonima canzone, a chiusura della serata.
Mai come stasera vale il discorso che si può essere in disaccordo su tutto, ma basta una sola cosa su cui s’è d’accordo per marciare insieme, uniti. E noi mai come stasera siamo stati “one”.
Valerio di Marco
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