Tremerà ancora la Capitale? Il prossimo luglio – sabato 15 e domenica 16 – gli U2 saranno a Roma con il The Joshua Tree Tour 2017 , tour celebrativo dell’omonimo album del 1987 che farà tappa allo Stadio Olimpico trent’anni dopo quella loro prima volta nella Città eterna in cui fecero gridare al terremoto.
Era la sera del 27 maggio 1987 quando la zona nord di Roma fu investita da una scarica di vibrazioni sonore e onde d’urto causate dal concerto di Bono & co. che suonavano allo stadio Flaminio.
Trent’anni fa al Flaminio
100mila watt di amplificazione non erano uno scherzo: mezza città andò in tilt e molti abitanti scesero in strada convinti che si trattasse di un sisma. Alcune abitazioni riportarono danni a muri e soffitti, e nei giorni seguenti ci furono polemiche su tutti i quotidiani.
Anche Carlo Verdone, la cui passione per il rock è nota, citò l’accaduto in un’intervista di alcuni anni fa. Raccontò di quando, nel 1993, era alla ricerca di un attico per le riprese del film “Perdiamoci di vista”.
Dopo vari tentativi andati a vuoto trovò finalmente quello che faceva per lui. “La casa – raccontò – non era un granché ma la terrazza faceva la differenza: grande visuale sui Monti Parioli, sullo Stadio Flaminio, su Ponte Milvio, con uno scorcio, dall’altro lato, su piazza del Popolo. Cercando di capire come potevo inventarmi un nuovo arredamento per il grande salone, guardai il soffitto per assicurarmi della giusta altezza per le lampade, ma mi prese un colpo: vidi infatti una poco rassicurante crepa sopra la mia testa che attraversava a zig-zag tutta l’area della sala”.
«Accidenti, ma che s’è mosso il palazzo?» chiesi con curiosità al proprietario. E lui, con tono sconsolato: «Questo è un regalo al condominio degli U2… Non c’è un appartamento sano qui! Adesso siamo in causa col Comune»”.
Insomma, nella storica voragine dei conti del Campidoglio c’è stata anche una voce “U2”. Chi l’avrebbe mai detto.
I quattro irlandesi avevano aperto a Roma la parte europea del tour che li avrebbe consegnati alla storia. Un tour che era partito a inizio aprile dagli USA e che, per dirne una, aveva fruttato loro la prima pagina del TIME col titolo “Rock’s hottest tickets”, i “biglietti più caldi del rock”.
Erano il gruppo del momento, nel momento forse più importante della loro carriera, quello in cui da band di lotta si fecero band di governo. Non erano più gli anni del post-punk di “Boy”, del combat-rock di “War” o delle sperimentazioni di “The Unforgettable Fire”, quando a svezzarli c’era Brian Eno.
No, gli U2 del 1987 erano una band in grado di camminare sulle proprie gambe, con l’unica preoccupazione, finito l’apprendistato, di scrivere grandi canzoni.
Cosa che fecero, nel pieno della loro fascinazione americana: in quegli anni andavano in giro vestiti di stracci come neanche il Terence Hill di Trinità, con stivali e cappelli da cowboy, in braccio la chitarra, e tra le labbra l’armonica folk a mo’ di novelli Bob Dylan. Ma piacevano così.
E così arrivarono anche al Flaminio in una serata torrida, aperta oltre che da Lone Justice e Big Audio Dynamite, anche dai Pretenders di Chrissie Hynde che il prossimo 14 luglio – il giorno prima degli U2, guarda un po’ le combinazioni – torneranno pure loro a suonare qui da noi, all’Auditorium.
Questo posto è grande…ma noi e voi…siamo più grandi!” disse Bono rivolto al pubblico in un italiano piuttosto incerto che tuttavia, nel corso degli anni, avrebbe imparato a usare con padronanza fino a duettarci con Pavarotti e a tenerci discorsi in diretta dal palco di Sanremo.
Quella sera il cantante aveva problemi di voce, tanto che la scaletta fu leggermente accorciata nei bis. Ma le parole servivano a poco perchè gli U2 costruivano ponti, e non muri.
Nei commenti del giorno dopo, critici e giornalisti (perchè sì, all’epoca i concerti rock fornivano ancora spunti di dibattito) sottolinearono come non si fosse mai vista tanta complicità, tanta empatia, tra band e pubblico. E infatti gran parte dei presenti conosceva già a memoria le parole dei nuovi brani.
L’album che dava il titolo al tour, “The Joshua Tree” appunto, era appena stato pubblicato e sarebbe diventato uno dei più venduti di sempre. Ad oggi, secondo stime ufficiali, sono ben 28 milioni gli “alberelli” che adornano le collezioni di mezzo mondo.
Gli U2 puoi amarli, puoi odiarli, possono perfino starti indifferenti, ma quel disco deve per forza essere passato almeno una volta nel tuo lettore. Altrimenti sarebbe come professarsi amanti della lettura e non aver mai preso in mano Garcìa Marquèz.
Magari non tutti i 35mila del Flaminio avevano letto “Cent’anni di solitudine”, ma gli U2 erano per loro come l’aria che respiravano. E infatti il delirio fu totale non appena le sagome dei quattro si stagliarono sullo sfondo illuminato di rosso, mentre l’organo dell’iniziale “Where The Streets Have No Name” saliva nel cielo. Estasi collettiva, momenti di solennità biblica.
La scaletta presentava il meglio della loro produzione fino ad allora. Grande spazio al nuovo album, ma anche a brani più vecchi come “I Will Follow”, “Sunday, Bloody Sunday”, “New Year’s Day” e “Pride”.
E in più, chicche come “Bad”, adorata da sempre dai fan, e quella “40” che negli Anni ’80 chiudeva i loro concerti.
Un momento simbolico, con i componenti che ad uno ad uno abbandonavano il palco lasciando al solo batterista Larry Mullen jr. il proscenio per l’assolo finale: lui che quella band l’aveva fondata era anche l’ultimo a salutare il pubblico. La scena, ovviamente, si ripetè anche a Roma.
L’usanza fu abbandonata dal decennio successivo ma ogni tanto la rispolverano in occasioni speciali. E questo tour potrebbe esserlo.
Luglio 2017, all’Olimpico
Un tour, questo del 2017, che è partito il 12 maggio da Vancouver e che a luglio sbarcherà in Europa. Roma è fra le poche città selezionate nel Vecchio continente, anche perchè negli anni non ha mai tradito.
L’ultimo concerto tenutovi dagli U2, sette anni fa, fu una celebrazione, con una coreografia da sballo sugli spalti dell’Olimpico e momenti di pura emozione.
Ma come non ricordare anche i precedenti show del 2005, sempre all’Olimpico, del 1997 nel carnaio dell’Aeroporto dell’Urbe sulla Salaria, e la doppietta nel 1993 ancora al Flaminio.
La novità a questo giro è che suoneranno per la prima volta in sequenza tutto “The Joshua Tree”. Il che ha un valore immenso per ogni appassionato, visto che molte di quelle canzoni sono autentiche rarità dal vivo, quando non addirittura esordi assoluti.
Tutti conoscono la prima metà (una volta si diceva facciata) di quel disco, quella di “With Or Without You”, “I Still Haven’t Found What I’m Looking For” e la succitata “Where The Streets Have No Name”.
Ma nella seconda ci sono “Red Hill Mining Town”, mai eseguita dal vivo; “Exit”, caposaldo del tour del 1987 ma messa da parte dopo che in America un tizio aveva ucciso un’attrice televisiva dicendo di essersi ispirato a quel brano (sì, anche gli U2 hanno la loro “Helter Skelter”); o ancora, “In God’s Country”, “One Tree Hill”, e “Mothers Of The Disappeared”, perle da sempre dispensate col contagocce.
Versioni live di alcune di queste canzoni furono immortalate nel film-documentario “Rattle And Hum” del 1988, il che ha contribuito ad alimentarne il mito nel corso degli anni.
Ma tutto è partito da qui…
Tornando a quel mitico concerto romano di trent’anni fa, va detto anche che stabilì un primato per gli U2: era infatti il loro primo concerto in uno stadio europeo.
Se uno dei tanti criteri di classificazione delle rock-band è quello per cui si dividono in band da stadio, da arene o da club, gli U2 erano appena stati promossi tra i big.
Solo una volta, prima di quella sera, gli U2 avevano avuto uno stadio tutto per loro (ad eccezione quindi di festival e raduni benefici come il Live Aid, dove dividevano il cartellone con altri).
Era accaduto a Detroit, nel mitico Pontiac Silverdome, un mese prima, durante la leg nordamericana del tour. Ma in Europa era la prima volta.
E da lì in poi quella dimensione non l’avrebbero più abbandonata. Oggi è normale per loro riempire una venue così grande ma allora era un rischio e col salto si rischiava l’osso del collo.
Questo per dire che magari, quando a settant’anni suonati (non manca molto, in verità) saranno ancora lì a riempire Wembley o San Siro come oggi i Rolling Stones, dovremo ricordarci che tutto è partito da lì. Cioè da qui.
Valerio Di Marco
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DOBBIAMO SCAPPARE. Quando ci sono concerti e partite noi in Via dei Prati della Farnesina non abbiamo più diritti. Non possiamo uscire di casa ne rientrare. I vigili non sono disponibili e le macchine vengono parcheggiate anche davanti ai cancelli pedonali, sui divieti di sosta. Impossibile vivere.