Che sia un’attrice di successo e fama è risaputo, ma forse non tutti conoscono il lato più intimo di Monica Guerritore. Di volta in volta i personaggi da lei interpretati a teatro, al cinema, in televisione, diventano i veri protagonisti e il pubblico poco riesce a scoprire della donna che dà loro vita. VignaClaraBlog.it ha avuto il piacere di incontrarla, lo ha fatto proprio a Vigna Clara, dove Monica Guerritore vive, e ha scoperto una donna forte, di cultura, dal ricco vissuto e con una profondità d’animo non così comune.
Capelli legati, un velo di trucco sul volto, orecchini pendenti che accarezzano il dolcevita nero, l’attrice che ha portato in scena personaggi complessi e di spessore si presenta con spontaneità e semplicità. Mentre all’esterno da un cielo grigio comincia a cadere qualche goccia di pioggia, noi iniziamo la nostra chiacchierata che ci porta a scoprire qualcosa di più di questa artista, che ha debuttato a teatro ad appena quindici anni sotto la direzione di un importante regista come Giorgio Strehler. L’incontro è stato anche l’occasione per parlare del suo libro “La forza del cuore. Le sfide della mia vita”, edito da Mondadori ed uscito lo scorso 23 febbraio. Non si tratta solo di un’autobiografia, ma di una storia che, attraversando alcuni dei momenti più significativi della sua vita, racconta come Monica Guerritore è diventata persona. Emozioni e sentimenti uniti a fatti sono gli ingredienti principali ai quali ognuno può attingere e nei quali ognuno può ritrovare parte del proprio vissuto.
Ha iniziato la sua carriera di attrice molto giovane, a quindici anni, debuttando ne “Il giardino dei ciliegi” con la regia di Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano. Come è accaduto, che emozioni ha provato e quando ha capito che quella era la sua strada? E’ successo assolutamente per caso come tante cose della vita, che forse poi così casuali non sono. Era il 1974. Frequentavo le scuole in Svizzera, ma ero a Roma perché avevo avuto un piccolo incidente sugli sci e mi avevano rimandata a casa per un periodo di riposo. Dopo un po’ la direttrice del St. George School, la scuola che frequentavo a Montreux, chiamò mia madre dicendo: “Se ve la tenete a casa è meglio”. Ero un po’ irrequieta. La cosa non ha dato troppi problemi a mia madre perché gli esami che mi mancavano potevo sostenerli ovunque: Cambridge, Oxford. Così mi trovavo a Roma a dicembre senza fare niente.
In quel periodo la mia migliore amica frequentava un corso di recitazione nel pomeriggio e per passare il tempo qualche volta l’ho accompagnata. A un certo punto in questo corso di recitazione si sparge la voce che Strehler cercava una ragazzina di quindici anni per fare la figlia di Valentina Cortese ne “Il giardino dei ciliegi”. Io non avevo alcuna intenzione di fare l’attrice, non ci avevo mai pensato, però ho accompagnato la mia amica al provino a Milano perché da lì alcuni amici partivano per andare a sciare.
Siamo arrivate a Milano e il giorno dei provini ci siamo recate davanti al Piccolo Teatro. C’erano tantissimi ragazzi e per entrare ho finto un piccolo malore, insomma, abbiamo fatto un po’ le romane! Passiamo avanti, ma non ci prendono né nome, né numero, né curriculum. Ci fanno entrare in portineria e, non appena il portiere si distrae, cominciamo a camminare per andare a vedere questo Piccolo Teatro. Scendiamo delle scale e ci troviamo nelle quinte. In quel momento sentiamo una voce che dice: “Dentro le altre venti”. Ed ecco che entriamo in ventidue. Le venti ragazze, la mia amica ed io con tanto di valigia, impermeabile, scarpe da ginnastica, pronta per andare a sciare. A quel punto ci mettono tutte in fila sul palcoscenico.
Dopo un po’ una voce dice: “Via tutte. Rimane solo quella ragazzina con la valigia e l’impermeabile”. Ero io. Passa un tempo infinito, in platea non vedo niente, sento però chiacchierare. Aspetto ancora e ad un certo punto una voce domanda: “Cosa hai preparato?”. Io dico: “Niente”. E la voce: “Come non hai preparato Giulietta o altro?”. E io rispondo: “No, io sto solo aspettando di andare a sciare. Ho accompagnato una mia amica”. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Strehler, ho capito dopo che era lui, mi ha cacciata dicendo che stavo facendo perdere tempo. A quel punto me ne sono andata a St. Moritz e lì ho raccontato questo fatto ai miei amici. Finita la vacanza torno a Roma.
Dopo una settimana mi chiama uno degli amici a cui avevo raccontato la storia e mi dice che Il Corriere della Sera era uscito con un articolo in cui si diceva che si cercava quella ragazzina romana, con impermeabile, valigia, somigliante alla Bergman, di cui non si sapeva nulla se non che andava a sciare. L’articolo sottolineava il fatto che Strehler non avrebbe iniziato le prove senza quella ragazzina, perché aveva scelto lei per fare “Il giardino dei ciliegi”.
A quel punto ho chiamato Il Piccolo Teatro dicendo che forse cercavano me. Mia madre mi ha spinta ad andare ed io sono tornata a Milano. Sono andata a teatro e dopo tre quattro ore è arrivato Strehler, un uomo stupendo, dolcevita nero, cappotto nero. Lui mi fa: “Ciao Ania”. Ed io: “No, mi chiamo Monica”. Non avevo letto “Il giardino dei ciliegi” e non sapevo che Ania era il personaggio che avrei dovuto interpretare. Mi invita a seguirlo e mi porta sul palcoscenico. Mi scruta un po’ e poi mi dice: “Sì, tu farai questa parte”. Io gli risposi che non avevo mai fatto nulla del genere, ma lui replicò: “Tu farai l’attrice”.
A quel punto chiesi il permesso a mia madre e dopo un mese iniziai le prove. Piano piano ho cominciato a capire che lì, soprattutto in platea, dove stavo moltissimo, vicino a Strehler, ci stavo proprio bene. E ho cominciato ad entrare in un luogo dove la poesia, il lavoro intellettuale, l’arte mi hanno completamente conquistata. Le prove sono andate avanti e dopo tre mesi è iniziato lo spettacolo.
La sera della prima non avevo alcun tipo di emozione, non sapevo a cosa andavo incontro. Ma poi ho fatto un errore. Sono andata in quinta prima del tempo e ho scostato un pochino il telo bianco che faceva da sipario. E’ stato in quel momento che ho visto il pubblico, ma soprattutto ho visto mio padre e mia madre insieme. Non mi era mai accaduto perché loro erano divorziati. Lì mi sono emozionata.
Vedere quelle sedie, che durante le prove erano sempre state vuote, occupate da estranei e poi vedere due persone per me così importanti insieme, mi ha suscitato troppa emozione. Così ho detto al direttore di scena che ero pronta a pagare qualsiasi cosa, ma che non sarei mai andata sul palco. Lui, uomo di grande esperienza, con tranquillità mi disse che avrebbero chiamato la sostituta. Peccato però che non c’era nessuna sostituta. Io, priva di esperienza, non pensando che nessuno aveva provato con me e che io indossavo i vestiti di scena, mi tranquillizzai. Nel frattempo iniziò lo spettacolo e della sostituta nessuna traccia. Arrivato il momento in cui dovevo entrare insieme a tutti gli attori, non feci in tempo a chiedermi dove fosse la sostituta che sentii un braccio alzarmi e spedirmi dritta dritta sul palcoscenico. Da lì non ricordo più niente tranne gli applausi.
La sua professione è allo stesso tempo una passione e come tale riempirà la sua vita. Ma quali sono gli interessi di Monica Guerritore a riflettori spenti? Mi piace fare cose pratiche. Ho una passione per i ferramenta. Pitturo qualsiasi cosa, soprattutto di bianco. Sono sempre alla ricerca di tinte di bianco. Ho la casa bianca con pochissimi mobili e alcune cose riciclate bianche. Ho poi una “mania”, mettere in ordine le cose. Ho l’esigenza di fare cose pratiche per sgomberare la mia mente. Fare una sorta di lavagna bianca. La mia più grande passione poi è la lettura. La lettura di testi filosofici, storici, metafisici, fisica subatomica, religione.
Dalla lettura alla scrittura...Sì, ma non è stato un passaggio consequenziale. Ho cominciato a leggere a una certa età e tutte le cose che leggo ora hanno un peso diverso. E’ adesso che va letto “Anna Karenina” di Tolstoj o Dostoevskij. Ho iniziato a scrivere per il teatro. Quando mi sono staccata da Gabriele (Lavia ndr) ho cominciato a fare le mie cose, ho cominciato a formare una sorta di scrittura da filosofi, mettendo insieme testi con parole di altri, ritagli che io conservo, parole che alcuni riescono a mettere in un certo modo rispetto ad altri e quindi a darvi un senso.
Lì ho cominciato ad usare la scrittura, anche se non era mia personale. In seguito, prima con “Giovanna D’Arco” poi con “Dall’Inferno all’Infinito”, ho cominciato a scrivere dei pezzi, dei blocchi di racconto. Quando poi Mondadori ha visto un’intervista su La7 con Lilli Gruber mi ha chiesto di scrivere un libro. In un primo momento mi hanno messo dietro un editor, ma io sono partita per la Tunisia e ho cominciato a scrivere da sola le prime trenta pagine, con una forma molto personale. Andando avanti e indietro per assonanze, per collegamenti emotivi, non in modo ordinato. Così mi hanno lasciata libera di scrivere l’intero libro autonomamente.
Nel libro ho inserito anche una parte sulla metafisica e quando l’editor l‘ha letta ha pensato ci fosse un errore, ma io gli ho risposto dicendo che quel pezzo c’entrava, che non era un errore. Poi questa forma, anche un po’ allargata di considerare tante discipline come facente parte di un tutto, è stata accettata. Sono riuscita a scrivere questo libro, in questo modo, perché ho sempre letto molto.
Nel suo libro, “La forza del cuore”, parla molto di emozioni, di sentimenti. Fa un’attenta analisi della propria interiorità. Come mai ha deciso di mettere nero su bianco il proprio mondo interiore? Avendo un rapporto molto diretto con le persone, facendo io un mestiere che è quello dell’interprete, vedo nella gente più di quanto possa fare chi svolge un altro mestiere. Sento che questo mondo interiore è più comune di quello che si pensa, però non viene quasi mai raccontato. Questa ricerca, questo desiderio di vivere le cose con giustizia, con affettività prima ancora che con forma, fidandosi dell’intuizione, seguendo una propria vocazione, sono cose che non vengono quasi mai raccontate e sono cose a cui uno non fa mai attenzione, ma sono molto presenti nelle persone. Così ho pensato che fosse giusto proprio parlare di questo, di mettere nero su bianco la mia esperienza personale. Però non ho pensato di scrivere un’autobiografia, ho pensato di raccontare gli ingressi e le uscite di alcune “avventure” che considero emblematiche, che ritengo siano veramente quelle che fanno il percorso di una persona. E ho voluto raccontare come queste “avventure” sono state prese dal di dentro, non dal di fuori. Che cosa hanno fatto cambiare dentro di me, per arrivare a diventare meglio di quando ho cominciato. Penso veramente che si è niente e si diventa qualcosa se uno vuole diventare qualcosa. Ma si parte niente.
Nel libro ha raccontato il suo diventare persona e spera che il lettore riesca a trovare in quelle pagine la forza che ha trovato lei. Ha parlato dei momenti più belli della sua vita, ma anche di quelli più difficili, come il tumore al seno che ha sconfitto qualche anno fa. Ma lei dove e come ha trovato la forza per affrontare le difficoltà della vita? La forza della vocazione, la forza di liberarsi da un rapporto che sta finendo per diventare se stessi e la forza per affrontare il tumore sono avventure nelle quali si entra, che bisogna saper gestire e dalle quali si deve saper uscire. La mia forza l’ho trovata praticando le cose, vivendole, affrontandole e avendo accanto a me libri che mi hanno aiutata.
Io faccio molto riferimento ai libri che leggo in determinati momenti della mia vita. Quando ho rivisto Giancarlo Giannini, ad esempio, avevo appena finito di leggere “Le Braci”. Dopo diciassette anni quella storia era rimasta aperta, ma poi la fine è arrivata proprio come recita quella frase che ho messo come epigrafe: “Esiste una regola invisibile nella vita per cui qualcosa che ha avuto un inizio in un modo o in un altro deve trovare una fine”.
Ora il momento è arrivato dice Sándor Márai. Le letture, come “Donne che Corrono coi Lupi” di Clarissa Pinkola Estes, mi hanno aiutata moltissimo quando ho cominciato ad entrare in crisi proprio con il mio progetto, con il mio compagno, con la famiglia, con il mio mestiere di attrice. E’ un momento che arriva.
A 35 anni si comincia a diventare un’altra cosa. Nella vita ci sono momenti di grande mutazione. Se la persona che ci è accanto non se ne rende conto e dice: “No, tu devi restare come eri ieri” o si muore o si va a respirare fuori. Fino ai 35, 37 anni, sono sempre stata dipendente da qualche Maestro. Ho sempre avuto qualche figura di riferimento. Poi ad un certo punto si inizia a diventare grandi e allora la vita bisogna cominciare a caricarsela un po’ sulle spalle anche da soli, rischiando anche di sbagliare o di non sentirsi capaci, ma bisogna andare a vedere.
Ha parlato anche di come sia difficile onorare il proprio talento. Da donna che si è costruita una carriera di successo e da mamma di due ragazze, che messaggio può dare a tutti quei giovani che lottano per riuscire a realizzare i propri sogni? Intanto uscire dal grande equivoco che purtroppo ci danno i mass media, ossia che prima di tutto c’è la riuscita professionale e il successo e poi dopo ci sono le altre cose, tipo il talento. Per onorare il proprio talento, quindi la propria vocazione, per prima cosa è necessario fermarsi un momento e cercare l’attitudine che ognuno ha.
Se sono i genitori a poterla indicare perché capiscono, bene, ma non è sempre così semplice individuarla nei figli. Se intorno a un giovane non c’è nessuno in grado di individuarne la vocazione, allora deve essere il giovane stesso a dover capire, a fermarsi e a domandarsi: “Qual è la mia attitudine? Verso cosa sono portato? Cos’è che mi attrae?”. Poi, in un secondo momento, pensare al successo in quella professione.
Il successo non è solo finire sui giornali o guadagnare molto. E’ la realizzazione nella società del proprio dono. E per arrivare al successo la cosa più importante che deve essere capita è che ci vuole tutto il tempo necessario. Perché così come noi cresciamo nella nostra struttura fisica, cresciamo anche nel nostro cuore, nel nostro talento. Ad esempio, io non ero di certo così a quindici anni, avevo un talento in erba, ma ci sono voluti trent’anni per dire a me stessa: “Sì, questa è realmente la mia strada. Sto onorando il mio talento”. Questa fretta, che porta anche a sentirsi frustrati se non si ottiene successo in due anni, trovo che sia molto diseducativa. La fretta che si trasmette ai ragazzi dà un carico eccessivo a chi deve farsi ancora gli strumenti.
Crescere è crescere in tutti i sensi ed è arricchirsi, non è morire, è diventare più forti, più grandi, più belli.
E’ molto appassionato il racconto che ha fatto della sua storia d’amore con il regista Gabriele Lavia. Dal 2001 è legata al vicepresidente della commissione Affari costituzionali della Camera Roberto Zaccaria. Monica Guerritore che donna è in amore? Sono molto esclusiva. Ho avuto poche relazioni importantissime. Mi piace vivere gli affetti, ma con un’autonomia cui sono arrivata ora. Devo sentire il mio compagno accanto a me; non sopra, sotto, addosso, ma accanto. Questo vuol dire avere veramente un compagno. Voglio amare la persona, non voglio esserne posseduta, né voglio possedere. Queste sono cose che appartengono a un’altra età. E’ qualcosa che si impara naturalmente. Si impara ad amare in maniera diversa. Si ama in maniera assolutamente idealizzata a vent’anni; a trent’anni si ama per il progetto, quindi ci si possiede interamente perché si costruiscono la casa, la famiglia, i figli; dopo i quaranta si ama in un altro modo ed è il modo che in assoluto adesso io preferisco. E’ il modo più libero, è l’amore che giorno dopo giorno scegli.
E nell’amicizia? Per me l’amicizia è diversa. Noi attori di volta in volta stringiamo rapporti di amicizia intensi o con la troupe del film che si sta girando o con la compagnia dello spettacolo teatrale e quelle persone, per il periodo in cui si lavora insieme, che in genere è di tre-quattro mesi per il cinema o la televisione e sei-sette mesi per il teatro per un paio d’anni, diventano i tuoi migliori amici. Si forma un gruppo affiatato e molto intimo. Poi, finito l’impegno lavorativo, tutto si esaurisce fino al nuovo incontro con la nuova troupe o con la nuova compagnia. E’ molto difficile avere dei gruppi esterni. Quindi anche l’amicizia è molto legata alla professione, una professione che ha a che fare con i sentimenti. Non si può rimanere freddi e distaccati recitando insieme tutte le sere. Si condividono tante cose.
All’infuori del lavoro ho un gruppo ristretto di cinque-sei amici che sono veramente miei amici, ma non più di quelli. Sono amici di lunga data con cui appena è possibile cerco di stare insieme. Poi c’è il gruppo degli amici del mare, con cui trascorro un mese delle mie vacanze estive. Evidentemente devo lasciare spazio per quelli che entrano ed escono a secondo di quello che sto facendo.
La sua è una carriera ricca di soddisfazioni: teatro, cinema, televisione e adesso anche un libro. C’è qualche sogno rimasto nel cassetto? Un grande film al cinema, con un grande regista che mi porti su una strada che non conosco. Il mio più grande sogno è avere davanti a me un Maestro, ossia qualcuno che mi insegni qualcosa di nuovo. Come mi è successo con il regista Giancarlo Sepe quando ho fatto il Teatro danza di Pina Bausch che io non conoscevo. “Madame Bovary”, “Carmen”. Era un teatro completamente diverso, un teatro d’avanguardia, di sperimentazione, con delle musiche, con il corpo, non con le battute. Quello per me è stato un Maestro che mi ha completamente rinnovata. Questo ancora non mi è accaduto nel cinema. Un Maestro che mi rinnovi, che mi mostri una strada diversa, un’interpretazione diversa. Questo è il mio grande sogno.
Una domanda legata al territorio. Ha sempre vissuto a Vigna Clara? No. Sono qui dal 1988. Ho messo radici e adesso non mi sposterei mai. Questo è il mio territorio. Ho acquistato una casa e amo da morire questo quartiere. Conosco e frequento tutti. Vivo intensamente questo quartiere, è proprio la mia casa allargata.
Prossimi progetti? Dopo la promozione del libro, la promozione di “Sant’Agostino”, lo spettacolo “Dall’Inferno all’Infinito”, lo spettacolo “Danza di morte” di August Strindberg, mi attende un po’ di riposo. Non vedo l’ora, ma sono certa che comincerò subito a pensare a quale prossima “avventura” intraprendere.
Stefania Giudice
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La mia “sanissima” passione giovanile.
Bellissima intervista, mi ha fatto scoprire una grande donna che conoscevo solo come grande attrice. Fatene di più di queste interviste, soprattutto a donne !
Martina