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Il mito di Woodstock all’Auditorium di Roma

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hendrix9.jpgA colloquio con Gino Castaldo, uno dei più famosi critci musicali. Abbiamo approfittato della disponibilità di Gino Castaldo per capire se oggi il mito di Woodstock sia ancora attuale perche’ proprio il prossimo ferragosto si celebreranno i quarant’anni del Festival di Woodstock. Per ricordare e rivivere quei memorabili tre gioni il 30 giugno, nella Cavea dell’Auditorium di Roma, Ernesto Assante e Gino Castaldo chiuderanno la quarta stagione delle loro Lezioni di Rock con una serata speciale dedicata a questo evento: Woodstock, l’happening di maggiore rilevanza di tutta la storia del rock e forse di tutta la musica moderna. La serata sarà anche l’occasione per presentare il loro libro “Il tempo di Woodstock” che uscirà nelle librerie il 2 luglio.

.Gino, a gennaio scorso è uscito il tuo libro in cui denunci la morte della musica; in questi giorni hai lanciato, insieme a Mauro Pagani, Pasquale Minieri e Stefano Senardi, un Manifesto per la Musica in ricordo di Demetrio Stratos, del quale è appena ricorso il trentennale della morte, a giorni esce il tuo libro, con Assante, sui quarant’anni del Festival di Woodstock; c’è un filo conduttore che lega queste tre cose?  Woodstock in America segnò il momento più alto del movimento hippie americano e di quanto era avvenuto di nuovo nel panorama musicale degli anni ’60, ma ne segnò anche la fine; nello stesso modo gino-castaldo.jpgoggi riusciamo a capire come la morte di Demetrio Stratos rappresentò in Italia la fine degli anni settanta, anni durante i quali i movimenti erano stati caratterizzati da un’invasività estrema ed estremizzata del pensiero e dell’agire politico: ogni cosa, anche l’azione più stupida ed insignificante, era rappresentativa di una scelta politica e ovviamente la musica era tutt’altro che estranea a tali atteggiamenti; all’improvviso tutto questo non solo scomparve, ma ci fu un vero e proprio rifiuto di qualsiasi cosa potesse avere una valenza di impegno politico e/o sociale: nasceva il riflusso che ha caratterizzato gli anni ’80. Il fatto curioso fu che i seguaci più convinti di tale riflusso furono i cosiddetti “duri e puri”, quelli che ti davano del borghese se leggevi Kafka o se suonavi una chitarra elettrica e che ora vedevi ballare in discoteca con il ditino alzato sull’onda di John Travolta e della Febbre del Sabato Sera. Non a caso Mauro Pagani nel suo primo romanzo apre tale epoca con la strage di Piazza Fontana e la chiude con il concerto che doveva raccogliere fondi per sostenere le spese per le cure di Demetrio Stratos (ricoverato a New York a causa di una misteriosa malattia) e che invece rappresentò il suo funerale. Per usare proprio le parole di Mauro Pagani in un’intervista che mi ha rilasciato di recente: “Non c’ era più un riferimento, quel brodo primordiale che era stato il movimento, eppure c’ era ancora un sentire democratico. Poi solo le macerie.” La morte di Demetrio Stratos privò il panorama musicale di un grandissimo sperimentatore, ma fu soprattutto la sparizione di “quel brodo primordiale” a determinare lo scarso successo raccolto dagli innovativi tentativi, penso ad esempio al progetto Carnascialia di cui gli stessi Stratos e Pagani furono protagonisti, di unificare la musica rock impegnata con la tradizione della musica popolare.

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Facendo un po’ di fantastoria della musica, come si sarebbe trovato Stratos a Woodstock?  Lo Stratos cantante degli Area benissimo, temo invece che lo Stratos sperimentatore, quello che per esempio cantava le diplofonie mongole (cantare eseguendo contemporaneamente due o più melodie), sarebbe stato demetriostratos.jpgfischiato, così come fu fischiato il pianista, musicista sperimentale, Cardini al suo concerto-funerale, già allora il pubblico era interessato più ad una parata di stelle che a dare l’ultimo saluto ad un grandissimo musicista, il cui contributo è ancora oggi in larga parte misconosciuto dai più. C’è però da dire che le sperimentazioni musicali di Stratos erano rivolte ad un pubblico estremamente ristretto; ricordo una volta, in un piccolo locale romano con non più di cinquanta persone, che cantò in una lingua incomprensibile registrandosi in diretta; terminata l’esecuzione riprodusse il nastro appena registrato facendolo scorrere al contrario e scoprimmo che le parole assolutamente inintellegibili ascoltate pochi minuti prima altro non erano che il testo in perfetto italiano di una canzone cantata al contrario. Al termine del concerto, sconvolto da una tale prestazione, mi sentii in dovere di chiedergli scusa per alcune critiche che gli avevo fatto tempo prima.

Quando arrivò in Italia la corretta percezione della portata del Festival di Woodstock? Allora le notizie viaggiavano molto più lentamente e in Italia arrivò prima il mito del festival che informazioni precise su di esso; aggiungi a questo il fatto che i media, sia americani che europei, calarono una pesante coltre di silenzio su un evento che di fatto, seppure per soli tre giorni, riuscì ad abolire il concetto di proprietà privata. In pratica in Italia una conoscenza vera, di ciò che era avvenuto, la si ebbe quando, più di un anno dopo, arrivò il film di Michael Wadleigh, che, nonostante venisse proiettato solo in cinema d’essay, diventò un fenomeno culto e restò in cartellone per mesi e mesi, con gente che assisteva a più proiezioni nello stesso giorno, spesso acconciata come quegli hippies che, da spettatori, furono i protagonisti del festival come i musicisti stessi, forse anche di più. L’influenza che poi Woodstock ebbe sui nostri festival musicali fu gigantesca: praticamente impose un modello a cui tutti, mettendoci ciascuno il proprio bagaglio ideologico/filosofico, si rifecero.

 Nel film, a un certo punto, si nota la presenza di un gruppo di giovani suore, presenza che uno mai si aspetterebbe in un contesto come quello di Woodstock dove si predicava l’amore libero e si celebrava il consumo di Marijuana; come spieghi una cosa del genere? Sì, è una dele stranezze del on-the-road-to-woodstock.jpgfestival. Ma quell’evento fu da molti punti di vista un cortocircuito. C’erano anche molti poliziotti in pensione che si offrirono volontari per aiutare gli organizzatori a mantenere la sicurezza. Ci fu anche un grande supporto dell’esercito (elicotteri e quant’altro), circostanza sulla quale alcuni dei protagonisti hanno fatto dell’ironia (come dire, eravamo contro la guerra e siamo riusciti a utilizzare l’esercito ai nostri fini). E poi ci furono gli abitanti della zona, all’inizio diffidenti, per non dire ostili, e poi attivamente collaborativi. In fondo il fan più sfegatato del festival fu proprio il proprietario dell’area, Max Yasgur, un semplice e tradizionale agricoltore della zona, che capì e apprezzò l’innocenza con la quale quella massa di giovani stava mettendo in piedi il sogno. Quindi in fin dei conti, perché non contemplare anche qualche suorina?

 Oggi siamo tornati ad una visione superficialmente mitica di Woodstock, sono pochi infatti quelli che ne hanno cognizioni precise; nello stesso modi pochi, e qui mi viene da intercalarci un “purtroppo” di dimensioni colossali, sanno chi era Demetrio Stratos. Ha ancora senso parlarne? Assolutamente sì, bisogna farlo però senza limitarsi alla semplice e nostalgica commemorazione e soprattutto senza cadere nello schema trito e ritrito dei mefitici revival di quegli anni che periodicamente ci vengono inflitti; l’obiettivo non deve essere quello di commemorare, ma quello di ripartire da lì dando a quelle idee, a quelle istanze nuova linfa propositiva.

Cosa manca oggi per avere non solo una nuova Woodstock, ma anche tutto ciò che a suo tempo portò a quell’evento? Manca esattamente tutto ciò che portò a quell’evento. Nella seconda metà degli anni sessanta ogni due tre mesi usciva un capolavoro epocale; pensa solo ai Beatles che in sette anni (dal 1963 al 1970) pubblicarono tredici album, quando oggi un qualunque gruppo o artista per arrivare a tredici album (e certo non di quel livello) impiega non locandina.jpgmeno di vent’anni. Oltre a questo, allora più che mai, il rock era tale in quanto espressione di istanze di una comunità, comunità della quale gli stessi musicisti erano facenti parte, senza alcuna distanza, nè fisica nè ideologica, tra loro ed il pubblico che li ascoltava. Quel modo di pensare e di fare musica era sulla cresta dell’onda, era mainstream; oggi il mainstream viaggia tristemente su altre strade. Prendi Jimi Hendrix e la sua esecuzione dell’inno americano che piano piano si trasformava nella riproduzione sonora dei bombardamenti sul Vietnam; quel pezzo allora era innovativo, ma oggi sarebbe ancora attuale sia dal punto di vita del messaggio politico che da quello più prettamente musicale; oggi magari ci sarà pure qualcosa del genere, sinceramente dubito, ma anche se c’è viaggia sotto traccia.

In questo lasso di tempo è cambiata anche la figura del critico musicale? Su questo punto non posso che essere autocritico nei confronti della categoria cui appartengo: prima c’era più coraggio da parte nostra e più libertà d’espressione concessa dagli editori; oggi invece domina il mercato. Uno dei motivi per cui scrivo libri è proprio quello di poter scrivere cose che normalmente non passano sui media che vanno per la maggiore.

Gino, ricordando l’appuntamento del 30 giugno all’Auditorium e ti chiediamo se anche l’anno prossimo si terranno le vostre Lezioni di Rock. Certamente, ma nel frattempo vi aspetto il 30, non mancate.

↓seppe Guernica Reitano

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