Home ATTUALITÀ I Low, rock lento e intimista all’Auditorium

    I Low, rock lento e intimista all’Auditorium

    LOW
    Fabrizio Azzali

    Raramente il nome di una band ricalca in modo così fedele l’approccio artistico da essa assunto. Low, come il profilo che si sono dati, ma anche sigla contenuta nel nome del genere di cui sono portabandiera, quello slowcore che all’alba degli anni Novanta iniziò a muovere i suoi passi grazie principalmente a loro e a gruppi come Spain e Red House Painters.

    Un pezzo di storia, quindi, che ha fatto tappa lunedì 8 aprile all’Auditorium di Roma con il tour che promuove l’ultima fatica in studio “Double Negative“, pubblicata dai Low a settembre dell’anno scorso.

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    La sala Sinopoli è  piena in ogni ordine di posti e il frontman (se così si può dire) Alan Sparhawk ammette di esserne un pò “terrorizzato”, visto che mai, il gruppo del Minnesota, era arrivato a numeri del genere (anche se all’Auditorium avevano suonato pure sei anni fa). Si tratta di poco più di 1100 posti: come si è capito, non parliamo di un gruppo di “massa”.

    Anche se l’ultimo disco è stato un piccolo caso discografico visto che, a dispetto della minore immediatezza in termini di suoni, è arrivato al 26mo posto in classifica nel Regno Unito e – cosa stranissima per loro – è entrato in chart anche in Italia. Ma quello che più conta è che “Double Negative” sia stato incluso nelle classifiche degli album migliori dell’anno scorso da quasi tutte le riviste specializzate: un traguardo che in pochi saprebbero tagliare con venticinque anni di carriera sul groppone e dodici dischi pubblicati.

    Nel 1994 moriva Kurt Cobain, e nel 1994 iniziava la rivoluzione silenziosa dei Low con I Could Live In Hope, pietra miliare universalmente riconosciuta e uno degli album più belli dell’alternative-rock di tutti i tempi.

    Solo che non è musica per saltare e ballare, ma musica che ti entra dentro poco a poco, intimista, minimale, riflessiva. I Low si assaporando lentamente, masticando e deglutendo a ritmi new age. Bisogna essere dell’umore giusto per farsene rapire, ma una volta che ti rapiscono non ti lasciano più.

    La band a Roma (terzo show in Italia di questo giro, dopo Padova e Bologna) entra in scena quando sono da poco passate le nove. Quasi due ore di concerto, per una ventina di pezzi. Le luci restano basse, per non dire assenti, per quasi tutto lo show.

    Dei tre sul palco si percepiscono solo le silhouette rivelate dal consueto schermo alle loro spalle. Anzi più che di schermo, stavolta si tratta tre “colonne” di tubi al neon disposti in orizzontale, a comporre un display che rimanda colori e immagini. E sono proprio le immagini a completare il discorso imbastito dai suoni, clip semplici – quando un occhio che scruta, quando il quadrante  di un orologio, quando una candela che si consuma – ma efficaci.

    La scaletta verte in buona parte sulle atmosfere disturbanti dell’ultimo lavoro in studio (otto i pezzi proposti), ma non ne è cannibalizzata, visto che spazia nel tempo alternando momenti più oscuri e melanconici (“No Comprende”, “Holy Ghost”) ad altri più solari dov’è la melodia a risaltare (“Plastic Cup”, “What Part Of Me”, “Lies”), senza tralasciare code noise e affreschi sonori apocalittici (il passaggio “Do You Know How To Waltz”/”Lazy” è uno di quei momenti che si possono definire perfetti).

    Alla fine la band lascia il palco tra gli applausi calorosissimi di un pubblico che dimostra di aver gradito questa parentesi “(s)low” ma che – com’è normale – una volta uscito dalla Sinopoli sarà pronto a riprendere i ritmi frenetici di sempre.

    Valerio Di Marco

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