Non ce ne vogliano gli altri ma Brunori Sas può a ben ragione essere considerato il cantautore italiano dell’anno appena trascorso.
“A Casa Tutto Bene”, la sua quarta fatica in studio, ha conquistato tutti, facendo guadagnare al barbuto musicista cosentino il plauso anche anche del pubblico mainstream, lui che era un portabandiera dell’ “indie”.
E martedì 13 marzo sarà all’Auditorium con il suo tour teatrale “Brunori a teatro – canzoni e monologhi sull’incertezza” per ribadire che alternativo è bello ma non c’è niente di male a piacere a tanti.
Successo vs purezza, una diatriba annosa
Verrebbe da chiedersi “e adesso come la mettiamo” ? Sì perchè in musica, “indie” è abbreviativo di “indipendente”: dall’industria, dalle logiche commerciali, dai numeri delle vendite. E’ un approccio, prima ancora che uno stato di cose.
Quello dell’indie è un mondo a sé stante, con le sue regole, i suoi codici. Poi succede che un artista indie venda milioni (vabbè facciamo decine di migliaia, chè in Italia i numeri sono quelli che sono) di copie….”indi” per cui non è più indie ma diventa un traditore.
Come vedete, è un salto del guado. Un giorno sei di qua, il giorno dopo sei di là. E magari ci prendi gusto. Passare in radio ed essere intervistati dal TG2 non è cosa da tutti i giorni.
Ma se guardi in faccia uno come Dario Brunori ti rendi conto che si può sopravvivere anche a questo. Come ? Fregandosene. Dei riflettori, così come dei detrattori.
A lui, che il 2017 sarà ricordato come l’anno in cui l’indie è stato definitivamente sdoganato presso il grande pubblico, interessa poco. E di essere mediaticamente considerato il capofila di una legione di ex sfigati saliti agli onori delle cronache, ancora meno.
Già perchè ci sono anche, tra gli altri, Calcutta, I Ministri, Francesco Motta e Lo Stato Sociale. I servizi in televisione li citano spesso insieme, anche se tra loro non hanno niente a che spartire. E anche se non sono per forza più bravi dei loro predecessori per cui i fatidici quindici minuti di notorietà di warholiana memoria non sono mai arrivati.
Perchè sono più le volte che la storia nega che quelle in cui concede la ribalta a chi la meriterebbe. Funziona così. Qualcuno decide che è ora che il successo premi la scena alternativa e come per incanto il grande pubblico “scopre” che al di là di Sanremo c’è vita per la musica in Italia.
Con le debite proporzioni, accadde lo stesso anche negli USA con il grunge, allorchè negli Anni ’90 Nirvana, Pearl Jam, e Soundgarden irruppero nelle classifiche di vendita con la delicatezza di un camion che sbatte contro una vetrata.
Per molti fu una novità ma la musica “altra” si era sempre fatta in passato. Solo che la gente non lo sapeva.
E a cascata, il fenomeno si ripercosse anche in Italia, quando pure da noi emerse quella scena fino ad allora rimasta nascosta negli scantinati dei locali underground, e gruppi come Afterhours, Marlene Kuntz, La Crus e C.S.I. arrivarono sulla bocca di tutti. Poi dopo qualche anno arrivò di nuovo quell’oblio da cui solo adesso pare si stia uscendo.
Ma i puristi a oltranza già storcono il naso, visto il successo riscosso dal musicista calabrese, al quale – per la verità – tutto si può rimproverare meno che la mancanza di coerenza.
Lui intanto se la ride
I suoi concerti sono sempre pieni, i ragazzi conoscono – e cantano – le sue canzoni come un tempo si faceva con Dalla e De Gregori.
Ma dov’è la crisi del pop-rock se nell’immaginario giovanile è ancora così radicato ? Forse dire che l’ha salvato lui è troppo, ma ci ha messo comunque del suo.
Un concerto di Brunori è una celebrazione, è un moto liberatorio, provvidenziale; è spettacolo, show business, ma con leggerezza. Quella di chi non si prende sul serio ma le cose le sa fare bene.
Da paroliere, innanzitutto, perchè riesce a creare con i versi quell’empatia che ti fa dire: “sul palco c’è lui, ma è come se ci fosse un pezzo di me”. I suoi testi sono ironici, taglienti, a volte politicamente scorretti, ma sinceri, brillanti, puntuali, propizi.
Senza tralasciare le musiche e gli arrangiamenti, senza i quali quanto detto fino ad ora lascerebbe il tempo che trova. Perchè in fondo, di note si sta parlando. E infatti, a sottolineare troppo le doti di cantautore del Nostro si rischia di fare un torto agli altri componenti della sua “Società in accomandita semplice”, a partire dalla sua compagna e corista Simona Marrazzo.
Non è “Brunori Sas” ma “i Brunori Sas”. Dal vivo la componente collettiva salta subito agli occhi – e alle orecchie – e si capisce che non siamo al cospetto di un uomo solo al comando ma di un team in cui ognuno fa la sua parte.
Insomma, più che dell’ennesimo menestrello scorbutico e solitario, parleremmo di una sorta di Arcade Fire (anche lì moglie e marito affiancati da allegra brigata) italiani. O di Broken Social Scene, per coloro più avvezzi all’indie canadese sotterraneo che più sotterraneo non si può: sobborghi della musica, appunto. Come quelli da cui viene, e dove forse un giorno tornerà, Dario Brunori.
Valerio Di Marco
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