
“I’ll never do that…” cantava Chrissie Hynde nel 1990, all’inizio della parabola discendente con i Pretenders. Ma se era riferito alla promessa di non prolungare all’infinito l’esistenza della sua band a dispetto della carta d’identità non è stata di parola, poichè di fatto la sigla non si è mai sciolta e negli anni ha continuato a sfornare dischi e andare in tour. Quello attuale farà tappa il 14 luglio all’Auditorium.
La data romana è inserita nel giro promozionale a supporto dell’ultimo album “Alone“, uscito l’anno scorso, prodotto da Dan Auerbach dei Black Keys e che ha interrotto un digiuno discografico che durava da otto anni, quelli passati da “Break Up The Concrete“.
E adesso, dopo aver percorso in lungo e in largo il Nord America in due diverse fasi – tra ottobre e dicembre 2016 prima, e tra febbraio e aprile di quest’anno poi – la band sbarcherà in Europa a fine giugno.
Il concerto previsto alla Cavea sarà l’occasione di rivederli dal vivo in Italia quattordici anni dopo l’ultima volta. A Roma addirittura mancano dal 1987, quando aprirono per gli U2 la storica data capitolina del The Joshua Tree Tour allo Stadio Flaminio.
Fu la sera del celebre “terremoto a Roma”, allorchè gli alti volumi usati da Bono & co. fecero gridare al sisma e alcune abitazioni della zona furono realmente danneggiate dalle onde sonore, con crepe su muri e soffitti. Ma le prime scosse le piazzarono loro, i “Pretendenti”.
Che in quel momento erano all’apice della carriera. Da lì sarebbe iniziato il lento declino. Sì è vero, nel 1994 il singolo “I’ll Stand By You” sbancò in radio e su MTV. Ma fu l’ultimo colpo di coda, un numero d’alta scuola abbastanza di maniera per una band che era stata capofila della new-wave, unendo alle tipiche rasoiate post-punk, suggestioni r’n’b, tinte power-pop e afflato melodico alla Beatles e Kinks.
E proprio una cover dei Kinks – “Stop Your Sobbing” – fu il loro singolo d’esordio, nel 1978. A cui seguirono perlomeno quattro album rilevanti: l’omonimo, “Pretenders II, “Learning To Crawl” e “Get Close”.
I Pretenders sono sempre stati sul filo tra l’essere una band di successo e mantenere quel profilo alternativo di fenomeno di nicchia. Un limite che hanno cavalcato scientemente.
Ma non è stato l’unico sul quale si sono divertiti a penzolare. Sono anche sempre stati a metà tra l’essere un gruppo, peraltro formato da musicisti di tutto rispetto, e l’essere una “one-woman band”. Perchè a condurre le danze è sempre stata lei, la Hynde, rockeuse nata in Ohio ma britannica d’adozione e tra le più carismatiche rock queen di quegli anni insieme a Debbie Harry, Annie Lennox, Kate Bush, Siouxie, Patty Smith e Joan Jett.
La line-up ha subito vari rimpasti nel corso tempo, e già all’alba dei Novanta, di quella storica era rimasta solo la leader e fondatrice. Il meglio c’era stato con la formazione originale. Anzi con le due formazioni originali, perchè nella loro cronologia c’è una data a fare da spartiacque: il 1982, anno in cui due quarti del combo iniziale, il chitarrista James Honeyman-Scott e il bassista Pete Farndon, muoiono d’overdose.
E allora la Hynde è costretta a rimpiazzarli con Robbie McIntosh e Malcolm Foster. Il primo sarà sostituito nel 1987 da Johnny Marr, leggendario chitarrista degli ormai disciolti Smiths.
Oggi, ad affiancare la frontwoman è rimasto solo il batterista Martin Chambers, onnipresente in quasi tutta l’epopea pretendersiana. Insieme a loro, l’ex bassista di Jonny Cash Dave Roe, il country rocker Kenny Vaughan alla chitarra e alcuni membri dei The Arcs, side-project garage-rock di Auerbach: Richard Swift alla batteria, Leon Michels alle tastiere e Russ Pahl alla pedal steel guitar.
Valerio Di Marco
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