La lentezza, in un mondo che va di corsa, oggi è considerata un handicap. Eppure c’è chi ne ha fatto la propria cifra stilistica, come Mark Kozelek, leader dei Sun Kil Moon, che lunedì 8 giugno suonerà dal vivo con la sua band alla Sala Petrassi dell’Auditorium per promuovere Benji, il nuovo disco uscito l’anno scorso e acclamato dalla critica mondiale.
La lentezza, dicevamo. Kozelek è stato il fondatore, all’inizio degli anni novanta, dei Red House Painters, band capofila dello slow-core, sotto-sotto-genere dell’hardcore, a sua volta figlio del punk made in USA.
Ma più delle etichette contano le sensazioni. E Down Colorful Hill, primo disco della band californiana, ne regalava a iosa. E’ lì che molti hanno scoperto e iniziato ad amare le atmosfere tristi e cupe, ma fiere, evocate dalla penna di uno dei cantautori americani più illuminati degli ultimi trent’anni.
Cantautore che, col passare del tempo, ha affinato il suo stile fino all’apogeo toccato con i Sun Kil Moon. Nome che sembra coreano ma che in realtà suggerisce che la luce vince sulle tenebre. Strano, perchè poi la miscela di folk e indie-rock proposto dall’ensemble è quanto di più oscuro, intimo e notturno si possa immaginare.
Ma c’è sempre luce in fondo al tunnel, e Kozelek lo sa bene. Basta leggere la sua biografia, tra turbolenze adolescenziali e dipendenze “stupefacenti”. O basta ascoltare i testi delle sue canzoni, vero e proprio campionario di sofferenze umane ai limiti dell’auto-flagellazione.
Che poi disperazione e rassegnazione non sono poi così male se a fargli da colonna sonora sono le trame magiche di un sound che ha fatto scuola e che ancora oggi ispira frotte di giovani band con l’aspirazione a ricreare, seppur in parte, la magia della scena post-rock anni ’90.
Ma per farlo serve comunque ascoltare Kozelek quando parla. Che di cose da dire ne ha ancora molte, e ogni suo nuovo lavoro è come un’enciclica papale.
Benji è un disco cupo e minimale, dove il suono è spogliato fino all’inverosimile lasciando spazio solo a chitarra e voce, che ci cullano tra ricordi di lutti familiari e riferimenti auto-biografici dell’autore alla ricerca del senso della vita rievocando il proprio vissuto.
Che sia o meno il miglior disco della sua carriera sarà il tempo a dirlo, ma intanto prepariamoci ad accoglierlo all’Auditorium, dove per una notte sarà bellissimo abbandonarsi alla lentezza per guardare dentro di lui. E forse anche di noi.
Valerio Di Marco
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