Home ARTE E CULTURA Auditorium – Cristiano De Andrè: “mi ricordo che mio padre…”

Auditorium – Cristiano De Andrè: “mi ricordo che mio padre…”

Galvanica Bruni

Con l’emozionante concerto “De Andrè canta De Andrè” è andato in scena mercoledì 28 luglio uno dei migliori eventi dell’ottava edizione della rassegna “Luglio suona bene“: accompagnato dalla sua ottima band, Cristiano De Andrè, 47 anni, cantante, autore e polistrumentista  – suona il piano, il violino, il bouzouki e la chitarra – ha regalato agli spettatori romani uno show intenso di due ore in cui ha ripercorso lo sterminato repertorio dell’indimenticabile padre.

In una serata in cui il caldo capitolino offre una graditissima tregua, la cavea dell’auditorium Parco della Musica è gremita in ogni ordine di posto quando, alle 21.05, salgono sul palco i quattro musicisti che supportano Cristiano De Andrè nel suo tour che va avanti ormai da più di un anno e nel quale l’artista si cimenta con l’arduo compito di confrontarsi con le poesie e le canzoni del suo illustrissimo ed indimenticabile genitore. Un’ovazione accoglie l’ingresso in scena di Cristiano, che entra poco dopo i suoi fidi compagni di strada.
VignaClaraBlog.it è lì, non poteva mancare di raccontarvi questa serata.

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Si comincia con l’incedere cupo e blues di Mégu megún , brano tutto in lingua genovese il cui titolo può essere tradotto in “medico medicone” e che consiste nella lamentela di un malato immaginario contro il suo dottore, colpevole di volerlo far alzare dal letto. L’ipocondriaco, del quale sentiamo anche il battito cardiaco accelerato ed il respiro affannoso, è spaventato dalla gente che fa domande, dalle persone sporche che possono trasmettere le malattie, dalle donne che possono far innamorare. Alla fine, il protagonista decide che è meglio non uscire di casa e rimanere a letto, come il rinunciatario Oblomov dell’omonimo romanzo di Goncarov.

Segue A çimma, canzone anch’essa in lingua genovese, nella quale viene descritta la preparazione di un piatto tipico della cucina ligure. Per gli amanti della gastronomia, la cima è un pezzo di carne di pancia di vitello tagliata in modo da formare una tasca, che viene farcita di ghiottonerie – parmigiano, uova, guanciale – e poi cucita a mano per evitare che il ripieno fuoriesca. Successivamente viene bollita con verdure per alcune ore e poi lasciata a riposo. Entrambi i pezzi sono estratti da “Le Nuvole” (1990), il disco che inaugura la collaborazione tra De Andrè ed Ivano Fossati – coautori del testo di ambedue le canzoni – e che prende il titolo dalla commedia di Aristofane, nella quale “nuvole” erano considerati i sofisti, portatori di idee rivoluzionarie rispetto alla ideologia conservatrice dell’autore. Fabrizio De Andrè, in un’intervista del 1990, chiarisce che “…le mie nuvole sono invece da intendersi come quei personaggi ingombranti e incombenti nella nostra vita sociale, politica ed economica; sono tutti coloro che hanno terrore del nuovo perchè il nuovo potrebbe sovvertire le loro posizioni di potere.”

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Evidenziate ed omaggiate le origini liguri con i primi due brani, Cristiano saluta il pubblico: “ciao, Roma! Sono felice di essere qui, di essere tornato all’auditorium per la terza volta in un anno!” e poi ringrazia gli spettatori capitolini perchè gli hanno portato fortuna sia per il tour che per il disco dal vivo tratto da questi concerti (ad ottobre, uscirà la seconda parte). Dice che affrontare suo padre, cantare le sue canzoni e trasmetterne la poesia, è come affrontare un toro, “un toro vero“, ma ci tiene a sottolineare che lo fa a modo suo, con la propria sensibilità, volendo regalare ai pezzi, ai diamanti scintillanti, scaturiti dall’ immenso talento di suo padre, un vestito nuovo, volendo rileggere il repertorio di Faber con la propria voce ed i propri occhi, per usare lo slogan della tourneè, ed arrivando con ciò a “realizzare un sogno nel cassetto“.
E una bella mano gliel’ha senza dubbio data Luciano Luisi (piano, tastiere e programmazione) che ha provveduto agli arrangiamenti delle canzoni di questo tour. Dopo aver dato il giusto riconoscimento a Luisi, già prezioso collaboratore di Zucchero e Ligabue, Cristiano presenta gli altri membri del gruppo: Osvaldo Di Dio (chitarre), Davide Pezzin (basso e contrabbasso) e Davide De Vito (batteria).

Si continua con Ho Visto Nina Volare, brano estratto da “Anime Salve” (1996) disco nel quale prosegue e si rafforza la collaborazione tra De Andrè e Fossati, che scrivono insieme tutte le canzoni, e che si presenta come un viaggio nel mondo degli umili, dei reietti e dei dimenticati. Lo spunto per il titolo di questa canzone dovrebbe essere un’amica d’infanzia di De Andrè, mentre le parole evocano immagini di vita contadina (“mastica e sputa da una parte il miele, mastica e sputa dall’altra la cera“).

E’ la volta di Don Raffaè (sempre da “Le Nuvole), un’ironica ed ispirata denuncia contro l’illegalità all’interno delle prigioni, nelle quali il secondino, che dovrebbe essere colui che controlla il carcerato, invece chiede aiuto ed appoggio all’illustre e potente detenuto, comportandosi con deferenza e chiedendogli favori e raccomandazioni. Il boss della camorra Raffaele Cutolo mandò una lettera al cantautore genovese ringraziandolo per la canzone e per aver colto così bene la sua personalità. De Andrè gli rispose con gentilezza che il pezzo non era dedicato a lui ma che, se voleva, poteva identificarsi nel personaggio. Della canzone, ricordiamo una bellissima esecuzione in coppia con Roberto Murolo al concerto del Primo Maggio del 1993.

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Bellissima e struggente la versione della successiva Se ti tagliassero a pezzetti (“Indiano“, 1981), insieme poesia d’amore (“se ti tagliassero a pezzetti il vento li raccoglierebbe, il regno dei ragni cucirebbe la pelle e la luna, la luna, tesserebbe i capelli e il viso e il polline di un dio, di un dio il sorriso”) ed inno alla libertà (“signora libertà, signorina anarchia“). Tornano le testimonianze della collaborazione di Faber con Fossati con Smisurata preghiera, ultimo brano contenuto in “Anime Salve“, quello che ne riassume l’intero significato: un atto d’amore di De Andrè nei confronti delle minoranze, “per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”.
Verranno a chiederti del nostro amore (“Storia di un impiegato”, 1973) è un altro momento molto toccante, con Cristiano che canta in modo assai ispirato, accompagnandosi da solo al piano. Successivamente, lo stesso Cristiano ricorda la nascita e la prima esecuzione di questo splendido brano:  il padre svegliò alle quattro del mattino la prima moglie Puni e le fece ascoltare la canzone nel salotto di casa. Il piccolo Cristiano assistette a tutta la scena attraverso il buco della serratura – “lo spioncino”, come dice lui e rammenta con commozione di aver sentito sua mamma sussurrare a suo padre “ti amo”, prima che i propri genitori finissero teneramente abbracciati. “Pane per l’anima“: con queste parole Cristiano descrive la sensazione che provò in quel momento.

Dopo l’esecuzione di Anime Salve, nel cui testo si esaltano gli spiriti liberi, ossia tutti coloro che sono salvi proprio in quanto scelgono la solitudine, arriva Nella Mia Ora di Libertà , splendido pezzo che conclude Storia di un Impiegato (1973), quello in cui l’impiegato, recluso nel carcere, compie la sua scelta passando dall’individualismo alla lotta collettiva (“e adesso imparo un sacco di cose in mezzo agli altri vestiti uguali….per quanto voi vi crediate assolti siete per senti coinvolti“).

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Al termine del brano arriva un altro aneddoto: era il tour 74/75, quello seguito alla pubblicazione di Storia di un Impiegato, e gli autonomi non perdonavano a Fabrizio De Andrè di essersi esibito alla Bussoladomani, il celebre locale della Versilia che veniva definito “il tempio della borghesia”. Lo stesso Francesco Guccini – che Cristiano imita alla perfezione, suscitando l’ilarità del pubblico – a tal proposito disse: “De Andrè? Non c’era alla Bussola, era in balera!“. Così, capitava sovente che gli estremisti di sinistra contestassero gli shows di Fabrizio che, fischiato ed interrotto, rispondeva puntualmente: “tu hai ragione, ma io sono un anarchico…” e via discorrendo per quindici, venti minuti. Nella tappa di Cantù sembrava tutto tranquillo, il concerto stava procedendo liscio e senza interruzioni. Cristiano, allora dodicenne, era presente allo spettacolo e, spiazzato da un silenzio inconsueto per quel periodo così “caldo”, pensò bene di far partire LUI un bel fischio. Il padre, accecato dai riflettori, non si accorse che era stato suo figlio a fischiare e riattaccò prontamente con “tu hai ragione, ma io sono un anarchico…“, il solito “pippone di venti minuti!”. “Non gli ho mai detto che ero stato io, solo Dori Ghezzi e pochi altri lo sanno!!“, conclude ridendo Cristiano mentre il pubblico applaude divertito.

Dopo i ricordi, si torna alle canzoni con il medley acustico che unisce Andrea (storia di un amore omosessuale durante la prima guerra mondiale, da Rimini 1978), La Cattiva Strada (una ballata tipica di De Gregori, “giocata” in tre accordi, da Volume 8 ) e Un Giudice (brano che è imperniato sulla figura di un nano che diventa giudice e si vendica della propria condizione attraverso il potere di giudicare e condannare, incutendo timore a quelli che prima lo deridevano, salvo poi inginocchiarsi nel momento della morte “non conoscendo affatto la statura di Dio“).
Quest’ultimo pezzo, come quello che segue, Dormono sulla Collina, è tratto da Non al denaro non all’amore né al cielo, l’album del 1971 che a De Andrè fu ispirato dalla traduzione che Fernanda Pivano fece dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Ancora la lingua genovese con Crêuza de Mä, gemma tratta dall’omonimo album del 1984: cantato interamente in genovese, questo splendido disco fu premiato in modo sorprendente sia dalla critica che dal pubblico. Il testo di questo meraviglioso brano descrive il ritorno dei marinai a riva e il modo in cui essi si sentano degli estranei quando sono sulla terraferma. Alla fine, il padrone della corda – il loro destino, la loro scelta – li riporterà al mare e alle loro vite di eterni viaggiatori.

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La versione di Amico Fragile (Volume 8 ) che ascoltiamo alla cavea è molto rock e semplicemente strepitosa (grandioso Osvaldo Di Dio alla chitarra elettrica!). Fabrizio De Andrè, riguardo alla genesi di questo pezzo superbo, che è una spietata e lucida condanna del conformismo borghese,  ebbe a dire: “1975. Stavo ancora con la Puni, la mia prima moglie e una sera che eravamo a Portobello di Gallura, dove avevamo una casa, fummo invitati in uno di questi ghetti per ricchi della costa nord. Come al solito, mi chiesero di prendere la chitarra e di cantare, ma io risposi: – perchè, invece, non parliamo? Era il periodo che Paolo VI aveva tirato fuori la faccenda degli esorcismi, aveva detto che il diavolo esiste sul serio. Insomma, a me questa cosa era rimasta sul gozzo. Così ho detto: – perchè non parliamo di quello che sta succedendo in Italia? Macchè: avevano deciso che dovevo suonare! Allora mi sono rotto le palle, ho preso una sbronza colossale, ho insultato tutti e sono tornato a casa. Qui mi sono chiuso nella rimessa e, in una notte da ubriaco, ho scritto Amico Fragile”.

Ci commuove sempre La canzone di Marinella (“Tutto Fabrizio De Andre’, 1966) che, con grazia e poesia straordinarie, continua a raccontarci la storia di una ragazza che abitava nelle campagne vicino ad Asti e che a 16 anni perse i genitori. Cacciata di casa dagli zii, si mise a battere e un giorno incontrò il suo assassino, che la gettò nel fiume Tanaro. Faber sottolineò che, non potendo fare nulla per restituirle la vita, cercò di cambiarle almeno la morte.
Molto blues ed incalzante l’esecuzione di Quello che non ho (Indiano, 1981), brano che evidenzia, con un testo diretto ed essenziale, le differenze tra gli oppressi e gli oppressori: “quello che non ho è una camicia bianca / quello che non ho è un segreto in banca / quello che non ho sono le tue pistole / per conquistarmi il cielo, per guadagnarmi il sole”. Dallo stesso album viene eseguita (“contro tutti i generali Custer di ieri e di oggi“) anche Fiume Sand Creek, che alle 22.50 conclude il concerto prima dei bis e che ha per tema un reale massacro di pellerossa cheyenne perpetrato dagli americani nel 1864 e raccontato attraverso gli occhi e la sensibilità di un bambino testimone dell’avvenimento. Versione davvero ben riuscita e coinvolgente: alla fine del pezzo, Cristiano presenta di nuovo la sua band di raffinati musicisti, oltre a ringraziare Pepi Morgia, che, dopo aver curato lungamente la regia degli shows di Fabrizio, ora si occupa anche di quelli di Cristiano. Luci accese, applausi scroscianti.

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Dopo pochi minuti, di nuovo musicisti in scena per i bis: arriva Â Duménega, una ballata tratta da Crêuza de Mä che racconta il rituale della passeggiata domenicale che tempo fa il comune di Genova concedeva alle prostitute, relegate per il resto della settimana a lavorare in quartiere prestabilito della città. Nel testo, grondante ironia e fine psicologia, De Andrè evidenzia il falso moralismo che accoumuna tutti i cittadini che assistono al “corteo”.
Segue Bocca di Rosa, da Volume I (1967), uno dei pezzi più famosi di Faber, incentrato sulla figura di una donna disinibita e libertina, che l’amore lo faceva “né per noia né per professione” ma “per passione“, e nel quale ancora una volta il cantautore geneovese volle stigmatizzare il perbenismo della popolazione. Alla fine del pezzo, per la terza volta nell’arco della serata, qualcuno del pubblico richiede Via del Campo e Cristiano risponde sorridendo: “Ancora?“. Risate, applausi. Ci piace molto la versione country-rock de Il pescatore (Fabrizio De Andre’,1976) e si finisce alle 23.15 con la La Canzone dell’Amore Perduto, uno dei brani del repertorio di De Andrè che in assoluto preferiamo.

Applausi scroscianti, luci accese. Gli altoparlanti diffondono le note del pezzo appena eseguito ma nella versione di Faber, Cristiano rimane solo sul palco, si avvicina agli spettatori e si inchina lungamente al pubblico coprendosi il volto con le mani. Starà pensando a suo padre? A quel filo sottile e resistente che li unisce e che tuttora mette in comunicazione le loro anime? Forse, sì.

Giovanni Berti

© riproduzione riservata

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1 commento

  1. Complimenti per questo resoconto…..io c’ero sia quest’anno che l’anno scorso…..Crissss per me è un mitooooo un grande…. grazie ancora per avermi atto ricordare come si suol dire per filo e per segno tutto quello che è successo in quella notte “magica” direi…..
    Marta

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