La sera di mercoledì 21 luglio Jón Þor (Thor) Birgisson detto Jònsi [pronuncia ˈjouːn ˈθouːr ˈpɪrkɪsɔn, ˈjounsɪ], dopo due anni di assenza, è tornato a calcare le assi della Cavea dell’Auditorium; questa volta con lui non c’è la sua band storica, i Sigur Ròs, i cui membri si sono presi un periodo di riposo. I quattro musicisti che lo hanno invece accompagnato (il suo compagno Alex Somers alla chitarra, Úlfur Hansson al basso, Ólafur Björn Ólafsson alle tastiere e Þorvaldur Þorvaldsson alla batteria) comunque non hanno dato adito ad alcun possibile rimpianto, basti solo pensare che ciascuno di loro si è cimentato nel corso del concerto con almeno altri due strumenti oltre quello principale; in particolare il batterista ha dato prova di raro talento: le sue percussioni, potenti, variegate e precise, più che un semplice sostegno ritmico sono risultate parte integrante delle melodie.
Asse portante del concerto, con nove brani sui quattordici eseguiti, è ovviamente il disco “Go” che Jònsi ha appena pubblicato come solista e che presenta una novità profonda rispetto ai precedenti lavori targati Sigur Ròs: la lingua principale dei testi stavolta è l’inglese, quasi a voler rompere il velo di incomunicabilità che da un lato ha alimentato, dall’altro ha limitato il successo nei cinque continenti della band islandese; solo due brani sono in lingua madre, Hengilàs e la splendida Kolniður, e del Vonlenska (hopelandic o speranzese che dir si voglia) sul disco non c’è traccia.
Attendiamo trepidanti l’inizio ma notiamo che i settori laterali della tribuna sono desolatamente vuoti; non c’è il pienone come nel 2008, purtroppo… per chi non c’era; lo spettacolo è stato estraniante, commovente, coinvolgente, travolgente, magico, in assoluto uno dei migliori concerti degli ultimi dieci anni, di quelli che si ricordano per tutta la vita.
Il concerto si apre con la melodia soffusa e quasi tremolante di “Stars in Still Water”, ad accompagnare la voce ci sono solo la chitarra e dolcissimi tocchi di vibrafono; in realtà è l’inizio di un crescendo che si chiuderà in neanche novanta minuti nella potentissima esecuzione di “Grow Till Tall”.
Anche se la lingua inglese ci aveva fatto presagire una sorta di riavvicinamento al mondo, Jònsi in realtà canta da un’oltre-terra non definita, spesso lo vediamo ricurvo su se stesso, quasi fosse racchiuso in un bozzolo; soprattutto non cerca il contatto con il pubblico al quale rivolge solo un brevissimo saluto a metà concerto subito prima di eseguire “Go Do”. Anche la luce contribuisce a questa sorta di isolamento: il palco è avvolto da un’atmosfera a lume di candela, i volti dei musicisti, che Jònsi neanche presenta, si intravedono appena, e all’improvviso esplodono i lampi delle luci stroboscopiche che fortificano la barriera tra artisti e spettatori.
In realtà la voce di Jònsi sta valicando le tre cupole disegnate da Renzo Piano per andare incontro non al mondo degli uomini, ma a quello della natura con cui si fonde in una sorta di simbiosi panica; a rappresentare tale fusione le suggestive animazioni, frutto del lavoro di cinquanta persone per un anno, che passano sul maxischermo alle spalle dei musicisti e con protagonisti sempre animali o piante.
Gli stessi testi, che si rivolgono spesso ad un “tu” come se le canzoni fossero parte di un dialogo, lasciano intendere in più di un punto questa aspirazione panica di Jònsi. L’ultimo brano prima dei bis è “Around us” che si chiude con Jònsi, solo sul palco, accartocciato sulla pedaliera degli effetti che moltiplicano e riverberano la sua voce; l’ultimo suono che sentiamo è lo stonk del microfono acceso lasciato cadere a terra a indicare la fine.
La pausa è brevissima e subito riprende la musica; Jònsi indossa un copricapo piumato a celebrare definitivamente la sua scelta di campo per il regno della natura. I bis sono due, entrambi tiratissimi: Sticks & Stones (dalla colonna sonora di “Dragon Trainer”) e la già citata “Grow Till Tall”; nel frattempo sul maxischermo, si scatenano tempeste di pioggia e neve.
La musica si spegne, i musicisti escono e rientrano per un velocissimo, e rigorosamente silenzioso, saluto al pubblico, che piano piano si avvia per le scalinate. Tratto comune a tutti i volti che incontriamo: una felice espressione sognante e soddisfatta.
↓seppe Guernica Reitano
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