Home ATTUALITÀ I Wilco conquistano Roma, tra intimismo e rock iconoclasta

I Wilco conquistano Roma, tra intimismo e rock iconoclasta

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wilco94small.jpgLa Sala Santa Cecilia dell’Auditorium gremita in ogni ordine di posto per il concerto della band americana (di Chicago, per l’esattezza) Wilco, la scorsa domenica 30 maggio. Dato apparentemente sorprendente: nessun manifesto per le strade, pochissima pubblicità anche da parte dello stesso Auditorium, articoli sui giornali usciti solo a ridosso dell’evento, quando era già tutto esaurito.

Ma sul fatto che la fama del gruppo capitanato da Jeff Tweedy (ex Uncle Tupelo), amatissimi oltreoceano da pubblico e critica fin dal loro esordio nel 1994, fosse giunta anche in Italia c’erano già vistosi segnali: i loro CD si trovano regolarmente e quasi tutti nei negozi di dischi (fatto sempre più raro per le band “alternative) e i concerti tenuti lo scorso novembre a Milano e a Firenze avevano già registrato il ‘sold out’.

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Dunque, il culto dei Wilco esiste anche da noi e si è evidentemente accresciuto attraverso il passa parola su Internet, che è oggi l’unico mezzo veramente efficace per promuovere la buona musica presso il grande pubblico. Un pubblico che, nel caso dei Wilco, è incredibilmente eterogeneo: all’Auditorium domenica si è visto di tutto, da coppie attempate a giovanissimi, da nerds a modaioli, tanti stranieri e tante persone di quelle che non ti aspetteresti di vedere a quello che, in ogni caso, è pur sempre un concerto rock.

Chi conosce bene la musica del gruppo, non si è sorpreso più di tanto: l’eterogeneità del pubblico corrisponde alla varietà di una proposta che miscela tradizione folk e psichedelia, pop e sperimentazione, rock e blues in un ‘meltin pot’ che è diventata la cifra dei Wilco e che grazie alla voce di Jeff Tweedy ma anche a certe sonorità ricorrenti resta comunque meritatamente riconoscibile. L’esibizione romana dei Wilco, seguita in Italia solo da quella di Ferrara il giorno successivo (tutto esaurito anche lì), è parte di un lunghissimo tour iniziato lo scorso anno per presentare il loro nuovo album “Wilco (the Album)” che, a dispetto del titolo, è il loro settimo lavoro in studio e conferma l’ispirazione persistente del gruppo ad oltre tre lustri dagli esordi.
Ma, ad onor del vero, in concerto il gruppo presenta pochissimi brani del disco, disseminati qua e là in un lungo ed entusiasmante set, preferendo offrire un campionario rappresentativo di tutta la loro produzione (è escluso solo il loro pur notevole album di debutto, “A.M.”) e dimostrando come dal vivo la loro musica acquisisca spesso un qualcosa in più.

Il concerto è iniziato quindi con un loro ‘classico’, “Ashes of American Flag”, tratto da quello che molti considerano il loro capolavoro, “Yankee Hotel Foxtrot” wilco92.jpg(poi ampiamente “saccheggiato”) ed è proseguito in larga maggioranza con i brani che abitualmente propongono dal vivo, prima quelli più acustici e in seguito quelli elettrici, in una sorta di ‘riscaldamento’ cui ha corrisposto un’accoglienza sempre maggiore da parte della platea. Il primo dato positivo è che la Sala progettata da Renzo Piano per la musica classica ha risposto incredibilmente bene, come mai ci era successo di riscontrare in passato, al suono spesso dirompente del gruppo.  Si sono potuti così apprezzare pienamente la genialità e la vitalità del batterista e percussionista Glenn Kotche, che bilancia mirabilmente tecnica ed istinto, la bella voce di Jeff Tweedy e gli assolo a volte puntigliosi e a volte isterici del chitarrista Nels Cline. Ma soprattutto si sono potuti apprezzare le sonorità del gruppo, più ricercate di quanto non possa sembrare al primo ascolto anche quando domina il feedback, segno ricorrente di quella furia iconoclasta insita del gruppo che compensa la sua vena intimista.
Già, perché i Wilco sono capaci di iniziare una ballata sognante e improvvisamente, quando meno te lo aspetti, farla a pezzi con suoni lancinanti, colpi velocissimi di piatti e tamburi, tasti del pianoforte martoriati e cacofonie varie per poi rientrare nei ranghi come se niente fosse, accompagnando la canzone verso il suo naturale compimento.

In uno dei loro cavalli da battaglia live, “Via Chicago” (immancabilmente eseguita anche a Roma), l’esplosione improvvisa del gruppo avviene addirittura mentre Jeff Tweedy prosegue placidamente a cantare e a pizzicare la chitarra, noncurante di quanto gli sta accadendo attorno. Di momenti così, nel concerto, ce ne sono diversi e per chi non conosce i Wilco rappresenta un fatto straniante ma anche coinvolgente, marcando l’originalità di un gruppo capace anche di sognante intimismo e di momenti squisitamente pop con brani come “Jesus etc.”, di allegro rock blues alla The Band come in “Heavy Metal Drummer” (il titolo è ovviamente ironico) o di lunghe cavalcate chitarristiche alla Neil Young come in “Impossible Germany”.
Eterogeneità di stili, come si diceva, che rende assai riduttiva l’etichetta di ‘alternative country’ che è stata affibbiata ai Wilco, equivocando la passione che Tweedy ha da sempre per Gram Parsons ma evidentemente non solo per lui (nella musica dei Wilco si rincorrono echi di Velvet Underground, Rolling Stones, Who, Bob Dylan, Springsteen, Beatles, ma anche il protopunk dei MC5 e delle New York Dolls).

Preciso ed ispirato nell’esecuzione, tanto lui come gli altri cinque componenti del gruppo (i citati Glenn Kotche e Nels Cline, più il tastierista Mikael Jorgenesen, il polistrumentista Pat Sansone e il bassista John Stirratt), Jeff Tweedy non ha proferito parola fin quasi a metà del concerto, spezzando il wilco94.jpgsilenzio solo quando il pubblico della platea, fino ad allora composto, non ha iniziato ad alzarsi e a ballare. A quel punto, pur riprendendolo bonariamente (“sedetevi, vi dico io se e quando alzarvi”), ha iniziato a scherzare tra un brano e l’altro, si è lasciato andare e con lui la band, confortata da un entusiasmo sempre crescente. Entusiasmo che ha accolto anche i brani dell’ultimo album, evidentemente ben conosciuto dai presenti: “Deeper Down” con un intermezzo strumentale che ricorda inaspettatamente i primi Genesis, “Bull Black Nova” e “You Neven Know” segnati dal pianoforte martellante di Mikael Jorgenesen, la struggente “Country Disappeared”, la trascinante “I’ll Fight”. E che i Wilco siano un gruppo fuori dal comune, lo dimostra anche il fatto che il brano di “Wilco (the Album)” che hanno promosso nelle trasmissioni televisive alla sua uscita, “You and I”, è rimasto fuori della scaletta ma forse, chissà, per rispetto della cantante con cui duetta Tweedy nel disco, la folk singer canadese Leslie Feist.

Si è arrivati così, dopo due ore di grande musica e emozioni, ad un lunghissimo, trascinante bis che per l’esecuzione di “California Stars” (unica incursione del dittico – “Mermaid Avenue” vol. I e II – realizzato dai Wilco insieme a Billy Bragg sui testi inediti di Woody Guthrie) ha visto sul palco anche due componenti del trio Retribution Gospel Choir che con il loro garage rock senza infamia e senza lode avevano aperto uno dei più bei concerti visti a Roma negli ultimi tempi.

Alberto M. Castagna

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