Lui cinquantenne, lei ha la metà dei suoi anni. Lui giornalista, lei, laureata, lavora come barista a Ponte Milvio. Lui, pluridivorziato, è incantato dai suoi occhi. Lei ha una storia da raccontargli. E lo fa all’ombra della Torretta Valadier.
Una storia che s’incrocia con la Storia, quella con la maiuscola. Lei gliela racconta davanti a un caffé seduti al chioschetto e poi passeggiando lungo via Capoprati, inseguendo le ombre dei platani che si rispecchiano nelle acque del Tevere.
Una storia che inizia a Roma, per poi svilupparsi a Parigi e complicarsi a Mosca in un intreccio di vicende che arrivano fino ai nostri giorni. La Storia nella storia, come due sfere una dentro l’altra…
Si intitola “Elèna”, ed è un racconto inedito di Michele Chialvo, 75enne giornalista residente a Vigna Clara, che ha deciso di regalarlo ai lettori di VignaClaraBlog.it.
Elèna
L’incontro
“Sta guardando le notizie della guerra, vero?”
Resto con la tazzina a mezz’aria, praticamente inebetito. Sono settimane che studio come attaccare discorso, ma non so perché poi mi manca il coraggio. Non è da me. E adesso è lei che attacca discorso con me e io mi rendo vagamente conto di non dover avere un’aria particolarmente sveglia.
“Elèna, vero? L’ho sentita chiamare dai suoi colleghi”. È la mia voce, la sento. Ma non sono io a parlare…
“Sì. Lei, Enrico, mi pare. L’ho sentito dalla signora che ogni tanto viene con lei.”
“Sì, mia cugina. Abita qui vicino.”
“Infatti. Viene spesso anche senza di lei. Mentre prendeva il caffè guardava le notizie della guerra?”
“Sì, stavo guardando l’Ansa… la nostra agenzia giornalistica nazionale che in genere è bene informata.” Però, brava la mia voce. Sa anche rispondere a tono.
“Forse dovrebbe bere il caffè”
Sorride. Comprensiva. Ha pure un gran bel sorriso. Sono ancora con la tazzina a mezz’aria. Ma manca solo un sorso e lo finisco. Gesti automatici.
“Sì, ho sentito anche che fa il giornalista. Stanno pubblicando tante storie di persone che vengono dal mio Paese. Se gliene racconto una io, me la pubblica?”
“Lei da dove viene?”
“Mosca. Ma ho vissuto anche molto in Crimea. La mia era una famiglia importante. Ma non mi posso fermare a parlare tanto, adesso. Sto lavorando. Se le interessa ci possiamo vedere quando smetto. Alle 5. Deve andare al lavoro?”
Ha un leggerissimo accento slavo, ma parla l’italiano perfettamente.
“Si sente poco che è straniera. Parla molto bene la nostra lingua.”
“Mia Nonna, Nora, era italiana e io sono cresciuta con lei. Ci vediamo più tardi?”
“Sì, oggi sono di corta… di riposo. Torno verso le 5 o vuole che ci vediamo da un’altra parte?”
“Va bene al chiosco laggiù a destra della Torretta Valdier del ponte? Ha anche dei tavolini fuori, verso la statua di San Francesco”.
“Ok. A dopo. Ma… me le porta anche un po’ di scorze di cioccolata, come l’altra volta?”
“Grazie, sì, così non mi chiedono niente. Gliele porto subito”.
Penso che sia una delle donne più belle che abbia mai visto. Letteralmente una strafica. Tanto da avermi messo in soggezione. Credo che sia stato per questo che non sono mai riuscito ad aprire bocca; e per l’età. Dev’essere alta poco meno di me che sono uno e ottantacinque. E non porta mai tacchi, forse anche per il mestiere che fa. Bionda come da noi non se ne vedono. Un corpo perfetto anche se in realtà non è facile capirlo. È sempre vestita in modo soprattutto comodo. Pantaloni larghi, camicie da uomo e golfoni abbondanti sotto il grembiulino uguale a tutti gli altri camerieri, con la scritta del caffè, il più vecchio di Ponte Milvio.
Ma la cosa straordinaria sono gli occhi. Verdi, ma di un verde che non ho mai visto. Sembrano due smeraldi, due magnifici smeraldi. Illuminati da dentro. Brillano. È difficile smettere di guardarli. Eppure, bella com’è, sembra non saperlo. Le donne belle come lei, spesso hanno quell’aria da stronze che mi riesce insopportabile. Lei, no. So perfettamente che se cominciamo a vederci finisce che mi innamoro come un ragazzino, nonostante la differenza d’età che dovrebbe essere notevole. Non credo che abbia più di ventitré, ventiquattro anni. E io, bidivorziato, senza figli purtroppo, e senza alimenti per fortuna, ne ho fatti 50 il mese scorso. Ma mi piace da morire.
“Alle 5”
Mi lascia il piattino con le scorze e se ne va. Quando dopo poco si avvicina al tavolo accanto e le chiedo il conto, mi manda un collega.
Non sono ancora le 3. Il caffè l’ho preso e devo decidere cosa faccio fino alle 5. Ok. Mi vado a fare una passeggiata e poi passo all’Auditorium. Sono usciti un paio di libri che mi interessano e voglio andare a dare un’occhiata in libreria.
Quando, pochi minuti dopo le 5, arrivo al mio appuntamento, lei è già seduta in un tavolino fuori e sta leggendo un libro con una matita in mano. A capo chino, gli occhi non si vedono.
“Sta studiando?”
Mi guarda. Mamma mia che meraviglia…!!!
“Sono iscritta ad un master della facoltà di lettere. Storia dell’arte.”
“Quindi… quindi è laureata?”
“Laurea Svizzera che mi hanno riconosciuto. Per fortuna. Sto guardandomi intorno per capire a chi chiedere la tesi.”
“Di storia dell’arte so poco. A cosa sta pensando?”
“Tra il ‘400 e il ‘500 da voi ci sono stati un casino di super grandi. Pittori scultori architetti… In realtà ce ne sono stati molti altri anche di ottimo livello, ma quando devi competere con Michelangelo, Leonardo, Tiziano o Raffaello, tanto per dire, non hai chance. E sparisci nel dimenticatoio. Magari vali molto di più di un altro nato un secolo prima o un secolo dopo, ma non ti si fila nessuno. Stavo pensando di occuparmi di uno di loro. Ce ne sono parecchi, sa?”
“Sì, recentemente mi è capitato di vedere on line le opere di uno che lavorava la terracotta e faceva delle cose stupende. Non lo avevo mai sentito nominare e ovviamente non mi ricordo come si chiama…”
“I più famosi sono tre Dell’Arca, Mazzoni e Begarelli. Hanno fatto delle cose da brivido. E nessuno li conosce. O quasi.”
“Sì. Mi pare fosse Dell’Arca quello che ho visto. Fantastico. Una sorta di nobile causa… Ristabilire una giusta collocazione?”
“È la malattia di famiglia… l’ossessione per la giustizia”.
“Sull’architrave d’ingresso al chiostro di San Francesco ad Assisi sta scritto che non c’è pace senza giustizia…”
“Giusto…”
“Ma stava dicendo che ci stava pensando… e poi?”
“Poi, giorni fa una sua collega della Radio, che fa spesso colazione da noi… Ci siamo messe a chiacchierare, le ho parlato dei miei progetti e mi ha dato un’idea interessante. È una che se ne intende. Soprattutto però di arte moderna.”
“E cioè…?”
“Ha visto…”
“Che ne dici se ci diamo del tu? Forse sarebbe più semplice…”
“Ok. Sì, è più semplice. Hai visto quelle statue di bronzo sparse per il Villaggio Olimpico, là dietro?”
“Come no. Abito dall’altra parte del ponte e vado spesso a fare la spesa al supermercato del Villaggio. Mi sono sempre chiesto cosa fossero.”
“Sono di Amleto Cataldi. Le fece per il piazzale davanti al vecchio stadio Flaminio. E sono ridotte male parecchio. Le hanno spostate quando è nato il villaggio e hanno rifatto lo stadio. Per le olimpiadi. La tua collega mi ha suggerito di chiedere una tesi sulla necessità del restauro. Mi è sembrata interessante. E ora era questo che stavo studiando”.
“Ma sei già alla tesi?”
“No. Ho ancora qualche esame. Ma bisogna muoversi presto.”
“Però non credo che fosse questa la storia che mi volevi raccontare, giusto?”
“Ovviamente… No. È la storia dalla mia famiglia. A cominciare dalla mia nonna italiana. Nora Forti. Era un’archeologa importante, sai?”
“Ok. Ora me la racconti. Aspetta però che ordino qualcosa. Tu non vuoi niente?”
“Mi piace sedermi in un tavolino al bar e ordinare a un altro… Ho preso un caffè… Non so, forse qualcosa da mangiare. A pranzo mi sono presa solo un babà. Meraviglioso, ma è un po’ poco…”
Faccio un cenno al cameriere che si avvicina subito. Era chiaramente in attesa e ci stava guardando un po’ male.
“Io prendo una spremuta d’arancia. Tu cosa vuoi?”
“Avete delle pizzette piccole rosse?”
Il cameriere a gesti fa capire di sì.
“Ok. Me ne porti tre o quattro e un bicchiere d’acqua minerale non gassata e non fredda, per favore.”
Se ne va senza una parola. Ne approfitto per perdermi di nuovo nei due smeraldi.
“Loquace eh…?”. È sempre il pilota automatico…
“Lo conosco. È curdo. È arrivato da poco e non parla una parola di italiano. Però capisce e le ordinazioni non le sbaglia mai.”
“Se lo dici tu… Ci vieni spesso, qui?”
“Quando è bel tempo e riesco a smontare che c’è ancora il sole”.
“Ok. Allora…?”
“Sei sicuro che ti interessa o stai solo sperando di… rimorchiarmi? Dite così, no?”
“Sì, diciamo così… Non sei certo una che ci gira intorno… Mi piace. Mi piace molto. Allora… Lasciami spiegare una cosa. Si può ‘fare’ il giornalista oppure si può ‘essere’ giornalista. Io sono di quelli che lo sono. Quindi se c’è la possibilità di incontrare una storia importante, la voglio sentire. A prescindere da tutto il resto. Se poi vuoi sapere se mi piaci. Te lo dico subito: da morire. Tanto che io, che in genere non sono timido nemmeno un po’, con te non sono mai riuscito nemmeno ad attaccare discorso. Anche a me piace essere diretto e chiaro, come vedi…”
Mi guarda con l’aria di approvare e di apprezzare. Ma è un’espressione strana. Che avesse capito perfettamente quanto mi piaceva?
“Però adesso vorrei che tu mi raccontassi la storia che devo ascoltare. Il resto, dopo, se lo vorrai. Anzi, se lo vorremo. Ok?”
Ora mi sta guardando proprio dritto negli occhi e naturalmente credo di essermi perso di nuovo. Non so per quanto…
“0k. Anche a me piacciono le cose chiare. E anche tu mi piaci… Non che me ne importi molto… sposato?”
“Divorziato. Due volte. L’ultima da poco. Niente figli… purtroppo…”
“Ok… Come diceva sempre Nonna in italiano, se son rose fioriranno”.
Nonna Nora
Adoro le rose antiche e mi sembra di vederne un paio in fondo a quegli occhi incredibili. E mi sembra anche di sentire una voce sublime che canta Elèna…Elèna…Elèna. Se perdo la brocca sono guai.
“Speriamo di non pungerci… Ti ascolto”
“Cominciamo da lei. Da Nonna. Come ti ho detto era laureata in archeologia. Alla Sapienza di Roma, anche se lei era di Varese. Aveva voluto a tutti i costi venire a studiare a Roma. La tesi sul tripode dell’età classica gliela avevano anche pubblicata. Ovviamente 110 e lode e abbraccio accademico. Eravamo nel ’38. Qualche settimana dopo il Re ha firmato le leggi razziali. Il professor Rizzo, il suo relatore, sapeva che la mamma di mia Nonna era ebrea. Sai che per loro conta la madre, no?”
“Certo. Anche mia Nonna era ebrea. Ma mio padre, invece, era ateo. E non glien’è mai fregato niente. Io ho scelto di essere cattolico e sono anche praticante. Partendo da quella frase del chiostro di San Francesco, però.”
“Anche io ho scelto di essere cattolica in una famiglia di atei. Per colpa di Papa Francesco e di Don Gianni, un prete straordinario che ho conosciuto a Lugano per poter continuare a giocare a pallavolo. Anche Nonna diceva di esser atea, ma in realtà era profondamente religiosa, solo che non riusciva ad ammetterlo. Solo quando ha capito che stava per morire… C’ero solo io… Mi chiese di andare a cercare il pope. E quando glielo portai mi fece uscire. Era sabato. È morta la mattina di lunedì. Allora… Riprendo.
Mia Nonna però non era solo figlia di un’Ebrea. A Roma aveva fatto amicizia con un gruppo di antifascisti comunisti e aveva finito per aderire al movimento clandestino. Il professore sapeva anche questo e, per proteggerla, riuscì a farle assegnare un incarico all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, pensando che all’estero le avrebbero creato meno problemi. Era solo biennale, ma intanto erano due anni guadagnati. E a Parigi, Nonna si unì al gruppo dei fuoriusciti italiani. In una di quelle riunioni conobbe Michail, dieci anni più di lei. Russo di Leningrado – allora si chiamava così – giornalista, comunista, ma… troskista. Alla Pravda gli avevano fatto capire che faceva bene a cambiare aria per un po’ ed era riuscito a farsi mandare a Parigi come inviato. Oh, se ti annoio mi fermo, eh?”
“Non mi annoi affatto. Ti ascolto e come hai visto sto registrando tutto.”
“E che ci fai poi con la registrazione?”
“Sono uno di quelli che impazziscono per le nuove tecnologie. Quasi una dipendenza… Stasera collego il mio registratorino al computer e domattina mi ritrovo tutto già bello scritto. Proprio tutto no, perché la conversazione spesso è troppo veloce, ma lavorarci sopra poi diventa molto facile. E in un paio d’ore ho pronto quello che mi serve.”
“Insomma… tra Nonna e Michail fu simpatia a prima vista. Non fu amore perché i due ebbero la conferma insieme di essere tutti e due gay, come si dice adesso. Allora si diceva in tanti altri modi, nessuno dei quali gentile. Ma la simpatia fu enorme e Michail e Nora presero un appartamento insieme a Montparnasse e vi rimasero fino all’estate del ’41, l’invasione della Russia. Ognuno viveva la sua vita sentimentale per conto suo, ma insieme condividevano tutto il resto. Come impiegata dell’ambasciata italiana, e con un cognome non ebraico, nonna non ebbe problemi con gli occupanti. Alla fine del ’40, l’incarico terminava, ma Nonna rimediò un lavoretto in un laboratorio di restauro.
Poco prima dello scoppio della guerra era arrivato in tournée a Parigi Dimitri Shostakovich che Michail aveva conosciuto piuttosto bene a Leningrado. Dopo il concerto con la quinta sinfonia, avevano cenato insieme ed erano rimasti a chiacchierare a lungo. Anche Shostakovich aveva avuto parecchi problemi col regime, e alcuni suoi amici erano stati pure giustiziati, ma rimaneva convinto che il comunismo fosse il futuro del mondo e che bisognava dare a Stalin l’opportunità di realizzarlo, che la Russia grazie a lui stava passando da paese vetero medievale a paese moderno e che se Michail avesse voluto, lui avrebbe potuto spendere forse una parola per lui, per farlo rientrare ben accolto. E gli consigliò di scrivere qualche articolo di quelli che potevano fare molto piacere ai vertici del partito. Michail si convinse e cominciò proprio con i fuoriusciti italiani, tutti passati in clandestinità, e il loro amore per Mosca.”
“E Trosky?”.
“Era scappato in Messico. E questo a Michail non era piaciuto. La notizia che i sicari di Stalin lo avevano assassinato non era ancora arrivata. Quando arrivò, aveva già scritto diversi articoli che avevano avuto un grande riscontro a Mosca e il giornale gli aveva proposto di rientrare, ma lui stava bene a Parigi e se Hitler non avesse invaso la Russia probabilmente non sarebbe mai tornato. Ma la Wermacht attaccò e lui si sentì in dovere di tornare. E, dopo un viaggio burrascoso, arrivò a Mosca anche Nonna Nora. Decisero di sposarsi.
Già qualche anno prima della guerra Stalin aveva introdotto leggi molto severe contro gli omosessuali e bisognava nascondersi. Gli anni della guerra furono durissimi per tutti i Russi. Nora fu impiegata in un ufficio del controspionaggio che si occupava di decifrare i codici tedeschi. Conosceva il tedesco abbastanza bene – era molto portata per le lingue – e la comunità dei comunisti italiani rifugiati a Mosca aveva garantito per lei.”
“E si fidarono?”
“Chi lo sa, veramente? Nonna aveva sempre avuto molti dubbi. Fatto sta che la facevano lavorare anche parecchio ed ebbe anche qualche responsabilità. Ma il caso volle che il suo superiore diretto fosse un altro intellettuale prestato all’intelligence di Stalin per le sue conoscenze. Il prof. Lyschin, pronipote della prima moglie, la moglie russa, del grande Schlieman. Quello di Troia. Lo sapevi che aveva vissuto parecchi anni a San Pietroburgo?”
“So a mala pena che aveva scoperto il tesoro di Priamo…”
“Infatti; e lo aveva donato alla Germania. E Stalin, quando capì che la presa di Berlino era questione di giorni, ordinò proprio a Lyschin di andare a recuperalo. Era considerato uno degli archeologi più esperti e il tesoro di Priamo era andato a studiarlo per la sua tesi di laurea proprio in Germania. Che era il motivo per cui anche lui parlava bene il tedesco e lo avevano coinvolto nel controspionaggio. E, insomma, la passione per l’archeologia li aveva uniti, lui e Nonna Nora, e si erano legati, professionalmente. Finita la guerra lui riprese i suoi scavi in Crimea e si portò anche Nonna. E fu, quello sì, un vero e proprio amore a prima vista. Quello di mia Nonna per la Crimea…”
“E il tesoro di Priamo dove sta adesso”?
“In parte al Puskin di Mosca e in parte all’Hermitage di San Pietroburgo”.
“E lo ha recuperato il professore?”
“Sì, con una squadra che gli avevano assegnato, fatta di militari e studiosi, che si sorvegliavano a vicenda… Quel tesoro ha un valore praticamente inestimabile. Sono quasi dieci mila oggetti d’oro…”
“Sì, qualcosa ho letto, anni fa…E gli scavi in Crimea erano importanti?”
“Dipende da cosa intendi per ‘importanti’. Certo se pensi, chessò, alla Troia di Schlieman, a Pompei, o anche soltanto al Foro Romano, quello che hanno trovato in Crimea è poca roba e di poca importanza. Ma per capire la storia dei paesi a nord del Mar Nero, dagli Sciti – ma anche prima – ai Greci, ai Romani e a tutti i barbari della steppa che si sono susseguiti dopo, allora sì, quegli scavi sono importanti. Lyschin aveva concentrato i suoi studi sulle popolazioni locali, mentre Nonna aveva studiato soprattutto i Greci e questo a lui serviva molto, perché le colonie greche, tra gli sciti e i romani, hanno lasciato molte tracce della loro presenza in Crimea e Nonna pare che fosse molto brava a ‘leggere’ – così diceva lei – quello che trovavano. Il bravo archeologo, diceva, non è quello che trova di più, ma quello che capisce meglio quello che trova.”
“Credo che si potrebbero fare paragoni interessanti anche con il mio mestiere…”
“Immagino… E insomma Nonna si stabilì in una villetta vicino a Yalta, di proprietà del Ministero che finanziava gli scavi, e da lì, praticamente, non si è più mossa. Non capiva come avesse fatto a vivere prima senza il mare davanti…”
“A chi lo dici… Anche per me, il mare è qualcosa di cui non potrei fare a meno…”
“Sì, anch’io lo capisco molto bene. Girava per la Crimea, per tutti i siti più importanti. Dirigeva gli scavi, classificava e catalogava i reperti, e collaborava alla gestione del museo di Charax, voluto dallo Zar ai primi del ‘900, vista l’importanza dei reperti. Ancora la settimana prima che se n’è andata, sono venuti degli studenti che lavoravano agli scavi per farle vedere alcune fotografie e sentire cosa ne pensava.
Aveva 96 anni, ma era lucidissima, perfettamente autonoma e dovevi sentire con che autorevolezza distingueva, datava, attribuiva, i vari reperti che le facevano vedere. E gli sguardi affascinati dei ragazzi, soprattutto delle ragazze… All’istituto che gestiva il Museo si tenevano corsi per gli studenti di archeologia delle università sovietiche e Nonna aveva insegnato lì per parecchi anni. E a 96 anni era ancora… La Professoressa.”
“Le eri molto affezionata, vero?” Per la prima volta i suoi occhi, per un attimo, si sono spenti. Si sono velati.
“La adoravo. Era una persona magnetica. Quando prendeva in mano un reperto e cominciava a spiegarti tutto quello che si riusciva a capire studiandolo e mettendo insieme il come e il dove era stato trovato, ti faceva venire i brividi…”
“Ok. Capisco benissimo. Che ne dici se ci muoviamo un po’. Potremmo continuare a chiacchierare passeggiando. È una splendida serata e non fa freddo”.
“Ok, dai. Fa piacere anche a me”.
Chiamo il Curdo che è sempre lì a guardarci storto e pago il conto, con mancia un po’ risicata. Mi sta antipatico. Non certo perché è curdo. Non mi piace come la guarda. Scendiamo verso il fiume sulla strada che corre lungo la sponda. Non mi ricordo mai come si chiama. Ma ha qualcosa a che fare con i prati. È sempre piacevole, abbastanza pulito e… promettente.
“È capitato anche a me, col mestiere che faccio, di incontrare persone che avevano qualcosa di speciale, e quindi capisco benissimo quello che vuoi dire. Però mi sembrava che volessi raccontarmi la storia della tua famiglia legata in qualche modo a questa guerra criminale in Ucraina, o no?”
“Ci stavo arrivando, ma volevo farti capire il punto di partenza. Allora, Michail, un paio di volte l’anno prendeva un aereo e volava in Crimea per stare una o due settimane con la sua adorata moglie. Non era cambiato niente, intendiamoci, ma i due si volevano veramente un gran bene. Lui era diventato un pezzo grosso nel partito e lei aveva la sua vita al mare. Ma non potevano stare a lungo senza vedersi.
Qualche volta, ma molto più raramente, era lei che andava a Mosca. Una volta che Michail era a Yalta, era il ’53, andarono insieme a vedere dei ritrovamenti appena avvenuti negli scavi vicino a Sebastopoli, l’antica Chersoneso. Niente a che fare con Cherson, la città di cui si parla molto adesso per la guerra. Sembrava che avessero scoperto una necropoli. Ciò che poi fu confermato.
E una delle prime tombe che trovarono era quella di una bambina. Avevano aspettato Nonna per aprirla. E si trovarono davanti le spoglie, ancora perfettamente distinguibili di quella che doveva essere stata una principessa bambina, quasi mummificata. Una tomba databile tra il terzo e il secondo secolo prima di Cristo, quando la colonia greca era al massimo del suo splendore. Su Nonna la scoperta ebbe un impatto straordinario. Neppure lei ha mai saputo spiegarsi il perché. E anche nonno fu molto colpito dalla vista di quei resti in qualche misura pieni di tenerezza. Si intuiva l’amore con cui erano stati sistemati nella tomba, l’abito prezioso, i piccoli gioielli, le decorazioni dei capelli, e… la sofferenza dei genitori. Insomma, per fartela breve, tornati a casa i due decisero di provarci”.
“Di provare a fare cosa?” Non sono sicuro di aver capito bene e per cercare di farlo mi perdo di nuovo in quegli occhi che hanno qualcosa dietro che li illumina. Siamo sul greto del fiume. Intorno a noi non c’è anima viva. Ho la destra nella tasca dei pantaloni. Camminiamo e lei si stringe sottobraccio. Mi sono sentito avvampare, credo di essere arrossito, anche…, ma lei non ha detto niente.
“Sì, hai capito. Vedo il tuo sguardo. Di provare a fare un figlio. Già a Parigi era successo una delle prime sere che erano andati a vivere insieme. Avevano provato a fare sesso, ma era stato un fallimento e avevano deciso di accettare e rispettare la propria diversità. Nonno stava a Yalta per tutta la settimana e loro, metodicamente, per tutta la settimana ci hanno provato. Non era cambiato niente e non è cambiato niente neppure dopo, ma Nonna è rimasta incinta. Ed è nata mia madre. Tutto questo te lo racconto, intanto, perché credo che sia una gran bella storia; e poi perché quello che è successo dopo, non si capisce se non parti da lì.”
“Indubbiamente, la storia c’è, ma finora ha ben poco a che fare con la guerra.”
“No, ovviamente. Ma la personalità di mia Nonna è ciò che ha fatto la storia della mia famiglia. Se non partivo da lei, non riuscivo a farti capire il resto. Mia madre ha vissuto con Nonna fino all’università, medicina, che è andata a fare a Mosca, andando a vivere con il padre. E poi è rimasta a Mosca a fare il medico in ospedale, ma il legame con la madre è stato sempre fortissimo. Con la madre e con tutto quello che lei era riuscita a trasmetterle.”
“L’ossessione per la giustizia?”
“Anche, appunto. Ma questo significava anche il rifiuto dell’accettazione supina di un’ideologia o di una fede. Che, secondo Nonna erano – lei direbbe ‘sono’ – a monte di tutte, o quasi, le sciocchezze dell’umanità. E sai secondo lei quale è stata l’ideologia più perniciosa… Si dice così, vero? Non sempre sono sicura di ricordare bene le parole di Nonna…”
“Non so cosa vuoi dire, ma perniciosa va bene se vuoi dare un senso negativo. In genere si usa per le malattie gravi… Però, scusa, avevo capito che lei era comunista. Non era una fede anche quella?”
“No, secondo lei era proprio questo il punto, lei diceva di essere comunista per convinzione politica, non per fede…”
“E qual era la differenza?”
“Secondo lei era ciò che le permetteva di vedere anche gli errori del comunismo e dei comunisti, come Stalin, che lei non ha mai amato.”
“E l’ideologia più perniciosa?”
“Sì… la più perniciosa della seconda metà del ‘900? La paura del comunismo e cioè l’anticomunismo. Che gli Americani sono riusciti con la loro colonizzazione culturale – letteratura, cinema e televisione – a diffondere in tutto il mondo occidentale.
Nonna aveva una passione per i western, anche se non era facile vederli in Russia, ma lei era autorizzata spesso a viaggiare all’estero; e diceva che l’oligarchia americana della Est Coast aveva costruito gli Stati Uniti sulla pelle del comune nemico pellerossa e il proprio impero economico quasi universale sul pericolo del comune nemico comunista. Cosa che – nota bene – Nonna diceva che era andata benissimo anche a Stalin”.
La Russia di Putin
Siamo andati avanti parecchio sull’argine che costeggia il Biondo. Quasi al Ponte della Musica. E ora facciamo marcia indietro. Elèna ed io, sempre sottobraccio. Ho la sensazione che lei si stia stringendo sempre di più. Forse sto sognando, ma che meraviglia di sogno.
“Ok. Che diresti però di avvicinarci ai tempi moderni. Ho capito che adoravi tua Nonna, ma mi pare di capire che la storia continua poi con tua madre…”
“Sì… Si era specializzata in oncologia. E in particolare si occupava delle leucemie. Era nello staff che ha seguito la Gorbaciova. Le era stata molto vicina e Rajssa si era molto affezionata a lei. E anche Gorbaciov, per cui mia madre aveva una specie di passione. Mentre odiava Eltsin. E poi non ha mai amato Putin che era venuto fuori con lui. Quando è morta Rajssa nel ’99, Gorbaciov è stato malissimo e mia madre e il suo compagno, che non era mio padre, gli sono stati molto vicini. Erano diventati amici direi quasi intimi… Soprattutto mia madre e Irina, la figlia, che erano quasi coetanee… mia madre la considera quasi una sorella.”
“Ma tuo padre invece…”
“In realtà non conta. Un’infatuazione di mia madre durata molto poco. Un giovane medico finlandese – era bello come una statua greca, diceva, e aveva dieci anni meno di lei – che era stato mandato a Mosca per un accordo tra università. Quando lui è tornato a casa – era subito dopo la grande crisi – non si sono mai più né visti né sentiti. Io avevo un anno e ovviamente non me lo ricordo.”
“E non ti è mai venuta la curiosità di incontrarlo?”
“No. Ho sempre considerato mio padre il compagno di mia madre. Era medico anche lui. Quando si sono messi insieme non avevo ancora cinque anni e per me è stato un padre meraviglioso, anche se lo vedevo poco perché te l’ho detto io sono cresciuta a Yalta con Nonna. Loro venivano spesso e ogni tanto andavamo anche noi, ma insieme ci siamo stati poco. Però gli ho voluto e gli voglio un gran bene. A mia madre e anche a lui. È una gran brava persona.”
“Però adesso ti fermi un attimo e mettiamo un po’ di ordine nelle date. Perché non mi ci ritrovo. La moglie di Gorbaciov è morta nel ’99, giusto?”
“Sì”
“E tu quanti anni avevi?”
“Sei.”
“No, fammi capire, tu avresti quasi trent’anni?”
“29 tra un mese, perché?”
“Perché non te ne davo più di 23, 24, ma proprio al massimo…”
“Dovresti vedere mia madre. Ne fa 70 l’anno prossimo e nessuno gliene da più cinquanta.”
“Chissà, magari un giorno la conosco pure…Andiamo avanti… Mi pare di capire che poi sono cominciati i guai…”
“Si. Soprattutto per mio padre. Tutti pensano che Gorbaciov sia stato la causa del dissolvimento dell’Unione Sovietica, ma non è vero.”
“Beh, qualcosa ha fatto però…”
“Ricordati che in Lituania, quando hanno fatto la rivoluzione, i carri armati ce li ha mandati lui. No, se fosse rimasto al comando, l’Unione Sovietica avrebbe retto, fidati. È stato Eltsin, con i suoi amici americani a volere e ottenere la fine dell’Unione Sovietica. Questo era lo scopo e questo hanno ottenuto. E Nonna lo aveva detto fin da subito. “Attenti – diceva – l’ideologia anticomunista… gli Americani, stanno vincendo”. E poi si è visto, Eltsin lo hanno finanziato e guidato loro. Ed è stato lui a mettere Michail fuori gioco – Gorbaciov, non mio nonno – e a distruggere tutto. Certo è stato Kruscev a regalare la Crimea agli Ucraini – i vostri giornali lo ricordano spesso – e mia Nonna raccontava che gli aveva anche scritto una inutile lettera in cui gli dava praticamente del traditore. Ma se rimaneva Michail, se lo sognava l’Ucraina di tenersi quei gioielli sul Mar Nero. Yalta – è sempre Nonna che parla – profuma di Russia in ogni angolo di strada. Avrebbe mai voluto Stalin incontrare i grandi del mondo in un posto che non considerasse russo al cento per cento?”
“Sì, probabilmente hai ragione, ma i guai di tuo padre? Non che non mi interessi la storia, ma così facciamo notte, non credi?”
“Non avevi detto che eri di riposo?”
“È vero. Ed è vero anche che mi piace molto ascoltarti e vederti così appassionata. Quando ti infiammi la luce che hai dentro gli occhi diventa un faro…”
“E anche gli occhi, li ho presi da Nonna. Tali e quali, diceva mamma. I primi guai di mio padre sono cominciati quasi subito dopo la fine del partito… E poi mi sa che l’idea di fare notte, non ti dispiaccia troppo, o mi sbaglio…?
“Per niente, ma prima vorrei aver finito di ascoltarti e offrirti una cena come si deve. Ti pare?
Camminiamo lentamente, molto, molto lentamente e i nostri sguardi si incontrano sempre più spesso. E siamo praticamente incollati.
“Ok. Andiamo avanti. Domani ho il turno di pomeriggio… sai che Gorbaciov e Eltsin non sono mai andati d’accordo…
“No. Ne so poco. Si conoscevano da prima della caduta del muro?”
“Qualche anno prima Eltsin era diventato segretario della sezione di Mosca e avevano cominciato subito a litigare. Michail era un politico prudente che voleva rimodernare l’unione sovietica. Boris in realtà odiava il comunismo e voleva ritornare all’impero russo. Magari facendo lui lo Zar”.
“Non starai esagerando un po’…?”
“Qualche anno fa uscì una bellissima intervista di Michail a Panorama. Te la ricordi?”
“Vagamente forse sì. Mi pare…”
“Beh, non lo disse a quel giornalista, ma si capiva che lo pensava. Comunque, sono stati sempre ai ferri corti. E quando Eltsin lo tirò fuori dalla sua dacia in cui lo avevano rinchiuso i golpisti. Ti ricordi? Era l’estate del ’91. Non lo fece certo per liberarlo. Ma solo per mettere fuori gioco gli ultimi spasimi del comunismo e dei conservatori. Da lì in poi è finito tutto”.
“Ma ci sono prove del fatto che dietro Eltsin ci fosse l’America?”
“Beh, io non ero ancora nemmeno nata. Quello che so, lo so per i racconti di mio padre e di mia Nonna e per quello che ho letto. Le prove nessuno le ha mai raccolte, ma… Mia madre era un carattere molto più concreto e raramente si metteva a parlare della politica con la ‘P’ maiuscola, come dite voi. Però mi ricordo che quando se ne parlò un giorno, non molto tempo fa – eravamo tutti a pranzo – fu proprio mamma a dire che Chesbulatov, che era presidente del parlamento al momento della crisi definitiva, diceva che vedeva spesso Eltsin andare in giro protetto da decine e decine di agenti americani della Cia. Qualche settimana fa, dopo che era scoppiata la guerra, ho letto un articolo – non mi ricordo su quale di questi quotidiani gratuiti che si trovano in giro – in cui si diceva che la guerra fredda era finita per merito di Gorbaciov e che era stato lui a mettere fine al comunismo. Allora ho chiamato mia madre a Lugano e gliel’ho letto. Si è infuriata e mi ha detto che mi avrebbe richiamato dopo poco. Voleva leggermi appunto le dichiarazioni di Chesbulatov e di Ruskoj, il vicepresidente, che aveva trovato su Le Monde. Ruskoj sosteneva che Eltsin quando era stato nominato presidente non faceva nemmeno una nomina che non fosse approvata dagli Americani. E questo lo sapevano tutti, ma stavano zitti perché dopo il golpe la repressione di quello sciagurato era costata la vita a più di mille militanti del partito; o perché conservatori o perché fedeli a Gorbaciov”.
“Ma di tutto questo in Europa di è saputo qualcosa?”
“Ritorno a mia Nonna. Eravate tutti così contenti – diceva – della caduta del comunismo che di tutto il resto non vi fregava niente. Comunque, Chesbulatov e Ruskoj sono stati in galera per parecchi anni. E molte cose si sono capite dopo anche a Mosca. E d’altra parte anche dietro a Zelensky e a questa guerra assurda, lo sai, ci sono sempre loro, gli Americani… La Russia è ancora il nemico.”.
“Sì, sono in molti a pensarlo. E qualcuno anche a dirlo, veramente. Non c’entra molto, ma mi incuriosisce. Prima hai detto che eravate tutti a pranzo. Tutti chi e dove?”
“A Lugano. A casa di mio zio. Nel ’38, dopo le leggi raziali, il fratello di mia Nonna aveva venduto la farmacia di Varese ed era riuscito ad aprirne una a Lugano. Mio zio Federico, cugino di mia madre, ha proseguito l’attività del padre. E sarebbe stato un pazzo a non farlo. Quella farmacia è una miniera d’oro. Lui ne ha fatto una delle più importanti del Cantone. La domenica spesso siamo a pranzo insieme. I miei e tutta la famiglia Forti. C’è anche una sorella di Federico. Professoressa universitaria di storia dell’arte. È lei, la mia mentore. Con il marito e due figli. E i tre figli di Federico. In tutto tre maschi e due femmine. Tre con me. Ed è ancora viva la Nonna, che aveva dieci anni meno del nonno ed ora ha 90 anni, lucidissima anche lei. Tavolate che spesso sono di 13 persone. Ma zio è ebreo e 13 a tavola secondo lui porta fortuna…”
“Ma i tuoi che ci fanno a Lugano?”
“Beh, in un certo senso la storia che ti volevo raccontare è tutta lì. Sono dovuti andar via da Mosca. Mio padre correva il rischio di essere arrestato. E anche mia madre con la sua amicizia per Irina correva dei rischi. Con le conoscenze di mio zio, e di mia zia, sono riusciti a trovare lavoro all’ospedale di Lugano. Prima mia madre, come esperta di Leucemie e poi mio padre, ginecologo”. Vivono lì dal ’15. Da quando sono cominciati i casini con l’Ucraina. A Mosca non erano affatto tutti d’accordo ad aiutare militarmente i separatisti del Donbass. E siccome il dissenso sembrava essere un’occasione favorevole, gli anti Putin hanno cercato di sfruttarlo. Ma lui mette paura, molta paura, e alla fine molti si sono tirati indietro. E mio padre ci stava per andare di mezzo. È stata mia madre ad organizzare l’esilio. Lei parla italiano, ovviamente, come me, lo ha imparato con Nonna. E a Lugano avevano parenti e conoscenze. Nonna era morta nell’ 11 ed io avevo dovuto lasciare il villino di Yalta. Dopo i funerali sono andata a Mosca con mamma e papà. E quindi a Lugano con loro. Il pronipote di mio nonno, il nipote del fratello, è a Parigi e ha riallacciato rapporti con i discendenti degli amici di Nonno Michail. Dice che si trova molto bene. È mio cugino di secondo grado, ma è più grande di me. Era uno dei capi del gruppo degli antiputiniani”.
“Dal ’93 al 2014 sono passati 11 anni. In quegli anni tuo padre ha continuato ad essere fra gli oppositori prima di Eltsin e poi di Putin?”
“No. Non ti dimenticare che quando è andato al potere Putin, a tutti – Gorbaciov compreso – sembrava che le cose dovessero andare meglio, anche se lo aveva portato su proprio Eltsin. Via gli Americani, via la Cia, si tornava a pensare al bene della Grande Madre Russia. Mio padre, che era stato tenuto in disparte fino ad allora, è diventato primario. Mia madre, vice, qualche anno dopo. E guarda che all’inizio sembrava che andasse alla grande. Con lui c’è stata una specie di boom economico. Dopo qualche anno, però, si è capito che la democrazia non era il primo punto all’ordine del giorno di Putin e della sua banda di oligarchi che hanno trasformato il Cremlino nella sede di una internazionale d’affari senza nemmeno l’ombra di uno scrupolo. Con molti agganci anche con la neonata mafia russa. Che non è meglio di quella siciliana, credimi, e della quale Putin non si perita – giusto? – di servirsi al bisogno”.
“Parli un italiano perfetto, non ti preoccupare. Anche piuttosto forbito.”
“Mia Nonna quando scriveva un articolo o uno dei suoi numerosi saggi sugli scavi, gli appunti li scriveva in italiano. Poi la stesura la faceva in russo. E io quegli appunti non me li perdevo mai. Era un piacere leggerli. Erano scritti in un bellissimo italiano anche se erano solo degli appunti, ma erano pieni di annotazioni molto personali, che poi negli articoli o nei saggi non comparivano”.
“Li hai conservati?”
“Sì. Nelle sue cartelle di pelle che venivano da Firenze. Se ne portava sempre in giro una. Alla fine, ne ho raccolte una dozzina. E sono tutte piene di appunti.”
“E non hai mai pensato di pubblicarli?”
“No, Nonna non avrebbe voluto”.
“Torniamo a tuo padre. Cosa è successo dopo?”
“È successo che piano piano è nata un’opposizione. Prima all’aperto, poi visto quello che accadeva agli oppositori, i superstiti si sono nascosti. Ma Putin ha spie dappertutto. Non per niente era colonnello nel KGB. E Eltsin, prima di farlo primo ministro, lo aveva fatto direttore dell’FSB, che ha sostituito il KGB. E sai quanto è facile trovare traditori quando sei in grado di promettere molto; se non tutto. E di fare minacce molto credibili. Così quelli più a rischio hanno deciso di andarsene. Non solo per il pericolo. Anche perché la Russia che avevano attorno, come dice mio padre, non gli piaceva più”.
“E come si trovano a Lugano?”
“Bene. Materialmente, molto bene. Vivono in una bellissima casa sul lago. Hanno tutto… Ma noi Russi, forse lo sai, siamo molto attaccati, visceralmente attaccati alla nostra patria. Gli manca. Si stanno dando da fare per creare fuori dalla Russia un’organizzazione di dissidenti. Ma anche questo va fatto con molta prudenza. Putin arriva dappertutto. Hai visto che è successo a Londra? Il polonio, la diossina che ha usato per l’ex presidente dell’Ucraina e ora i negoziatori di pace in Bielorussia… Essere contro di lui in modo esplicito e, diciamo, efficace, è pericoloso. Molto pericoloso”.
“Vabbè. A questo punto direi che ho capito. La storia che mi volevi raccontare è sufficientemente chiara. Però il racconto da parte tua non può che essere il punto di partenza. Il resto bisognerebbe andarselo a cercare in giro per il mondo. Conoscere i dissidenti russi che se ne sono dovuti andare e sentire le loro di storie. Cominciando dai tuoi. Non credo, però, da quello che mi dici, che saranno molti quelli disposti a parlare. Bisognerebbe trovare una chiave per parlarne senza mettere in pericolo nessuno. Strano che non ci abbiano già pensato gli Americani. Però mi devo informare. Magari lo hanno fatto e io non lo so”.
“Non lo so nemmeno io. Però ti posso dire che un giornalista americano ha contattato mio cugino a Parigi, ma lui sta rimandando l’incontro da settimane, nella speranza che cambi qualcosa”.
“Facciamo così. Ho registrato tutto. Domattina ne parlo al direttore. E qualcosa gliela faccio anche sentire. Se è interessato, scrivo un pezzo e gli propongo di andare a Lugano a conoscere i tuoi. E di organizzare qualcosa di molto più grosso mettendo in mezzo anche i corrispondenti. Non è escluso che riusciamo a fare qualcosa di importante… Ci proviamo.”
“A Lugano ci andiamo insieme, però…”
“Ovviamente. A meno che domani tu non pensi che ti potresti sentire un po’ in imbarazzo…”
Ci guardiamo per un momento dritti negli occhi. I suoi hanno un bagliore fulmineo. Quasi accecante.
“Non credo… Dov’è che volevi andare a cena? Io me la cavo a cucinare… cosa sai della cucina crimeana?”
Sono passati parecchi giorni. La cucina crimeana è stata… indimenticabile. Ora siamo a Santa Marinella, nella mia casa sul mare, che più sul mare di così non potrebbe essere. Elèna ha chiamato la mamma al telefono e me l’ha passata. Le ho detto che volevamo fare un’inchiesta sui dissidenti russi costretti da Putin a lasciare la madre patria e che ci serviva una lista di persone da provare a contattare. Con grande prudenza naturalmente. Mi ha suggerito di mettermi in contatto con il cugino a Parigi ed ora l’elenco ce l’abbiamo. Lo abbiamo scremato per farne un elenco ragionato e sono più di una dozzina di nomi e di indirizzi sparsi per tutta Europa. Elèna non credo abbia detto niente alla madre di noi due, ma lei era stranamente affettuosa. Chissà? Dicono che le madri sanno sempre tutto.
Al giornale stiamo pensando ad un’inchiesta geograficamente molto estesa. Ma abbiamo deciso, per ora, di non fare uscire ancora niente. In tasca, intanto, ho i biglietti per Lugano. Partiamo lunedì. E poi si prosegue per Parigi. Il suo contratto con il bar era di tre mesi.
Ma la verità è che io, in questo momento, mi sento l’uomo più felice sulla faccia della terra. E questa storia dovevo assolutamente metterla nero su bianco. Rileggendola, forse riesco a convincermi di non stare sognando. Ieri sera mi ha detto che lei non vuole aspettare i 40 anni di sua madre e di sua nonna per avere un figlio…
Michele Chialvo
ndr: Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale. Questo racconto è protetto da copyright e non può essere copiato né in toto né parzialmente.
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Ringrazio Michele Chialvo del bel regalo che ci ha fatto.
Lo stamperò e, dopo averlo letto e riletto, lo metterò in mezzo ai miei libri.
Grazie!
Bellissimo racconto. L’ho letto con molto piacere , quasi divorato .
Grazie !
Letto tutto d’un fiato! Molto bello,grazie!
io non leggo mai libri , non mi piacciono ,ma questo mi ha fatto ricredere che a 75 anni forse mi sono perso qualcosa, grazie
Bravo Michele! Scoperto per caso…una bella sorpresa!
Una piccola storia nella grande Storia! Complimenti
Bellissimo racconto intenso e che, con un buon equilibrio, ha dentro di sè vari punti di interesse. Storia, sentimenti, riferimenti culturali che miscelati in modo gradevole formano una piacevole e avvincente storia.
Ho letto il racconto di Michele Chialvo tutto d’un fiato,prima di tutto perché l’autore ha saputo dosare tutti gli elementi che lo compongono con maestria,creando la giusta dose di suspance che è la molla che,leggendo, ci spinge ad arrivare fino in fondo e poi perché …ho ritrovato un compagno di liceo!Michele ed io abbiamo frequentato gli anni del liceo al Lucrezio Caro!