
A Ferragosto la spaghettata di mezzanotte era “tutto”. Sì, avrei dovuto scrivere la parola “must”, o magari “cult”, come scriverebbero i giornalisti bravi. Ma io sono diverso.
“Anticaja e petrella”, storie di serate estive degli anni Settanta, Italia in bianco e nero e come passatempi da mare il “going”, le “clic-clac”, al massimo la dama o la partita a carte di zio Arnaldo, che era un fenomeno a tressette. Insomma, il nulla cosmico, o quasi.
Ma la spaghettata ferragostana a mezzanotte era tutto, pareva di vivere la stessa attesa del Natale per scartare i regali, o il conto alla rovescia della notte di San Silvestro.
Si cenava prima del solito, ma la cena era comunque a base di melanzane alla parmigiana e pollo coi peperoni, timballo e zucchine ripiene; anche se in realtà una non meglio precisata parente assicurava che il giorno dopo si sarebbe smaltito tutto con una nuotata.
Poi, alle dieci e trenta della sera si tornava a tavola, le donne andavano in cucina e le sentivi confabulare, partivano con l’idea dei tonnarelli al ragù, proseguivano con la carbonara, chiudevano il discorso con la solita ajo, oio e peperoncino. Che a mezzanotte è come il montante ben assestato d’un pugile. “Ma ferragosto viè ‘na volta all’anno”, questa era la frase di circostanza.
“Chi sente se la pasta è cotta?”, “Quanta ne buttamo giù?”, “’ndo sta lo scolapasta?”, domande di rito cui seguiva sempre quella del re dei dritti: “abbondate cor peperoncino”.
Insomma era festa per la famiglia ma anche per i trigliceridi in un’epoca in cui non esistevano vegani, vegetariani, cucine al vapore e chef che impiattano senza gocciare.
Altri tempi, altra vita. E a ripensarci viene da urlare che “se stava mejo quanno se stava peggio”.
Massimiliano Morelli
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