
Siamo talmente abbindolati dalla smania della parità di genere che stiamo andando alla deriva, accompagnati dai promotori di un’uguaglianza (di genere) che riempie la bocca, non la testa.
Da quando la fascia tricolore dal primo cittadino è stata assegnata a una donna, s’è tentato d’obbligare il popolo a chiamare in causa la “sindaca”, e a cascata è arrivata pure l’“assessora”.
Ora, senza stare a fare i conti del norcino (a questo punto è corretto scrivere anche della norcina se il ruolo è occupato da una signora) è meglio non indagare a quanto ammonti il costo delle targhe in ottone pregiato affisse su porte e muri dei Comuni con l’avvento d’un sindaco o di un assessore donna.
E, a parte che suona proprio male il termine “sindaca”, peggio mi sento nell’udire la parola “assessora”, e tralasciando il fatto che Dante si stia arrovesciando nella tomba, qui nasce il partito dell’inutilità, quello che se si parla di studenti (generico, non maschile) quel termine studenti deve per forza di cose essere accompagnato dalla parola “studentesse”. Altrimenti non è parità di genere.
Nel contempo però molte donne vengono vessate sui posti di lavoro. “Ma che c’importa? Ora sono diventate sindaca e assessora, le abbiamo accontentate” afferma in maniera molto ironica e subdola un vecchietto al bar dello sport, consapevole del fatto che quella “a” conclusiva significa nulla, se manca il rispetto delle persone ancor prima di quello dei ruoli e delle etichette.
Fosse così necessaria quella ultima vocale a chiusura di parola, allora bisognerebbe dar ragione a quel pediatra (uomo) che pretendeva di farsi chiamare pediatro.
E qui aggiungo che il giornalista (uomo) allora dovrebbe essere il giornalisto, e chi al bar prepara cappuccino e cornetto, se maschio, ha il diritto di farsi chiamare baristo.
Massimiliano Morelli
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Bravo! Finalmente uno che ha il coraggio di dire come stanno effettivamente le cose! Hanno voluto anche il cognome della madre senza rendersi conto che in effetti era quello de padre!!!!!!!