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A Roma  platani come papiri e giunchi

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Galvanica Bruni

A chi non è capitato di portare una coppia di amici ad ammirare le bellezze della capitale? Un compito piacevole che permette di mostrare con orgoglio a chi non risiede stabilmente a Roma le ricchezze di una città unica al mondo passando per le tappe del centro storico: Trastevere, l’Isola Tiberina, Portico d’Ottavia, Piazza Navona, il Pantheon, Piazza S. Maria in Trastevere, Campo dei fiori…

Un orgoglio spesso mortificato però dalla grande sciatteria di questa metropoli che accanto a gioielli più unici che rari mostra il suo volto peggiore proprio ai turisti: cassonetti che tracimano rifiuti, piccole e grandi discariche, erbacce, “sanpietrini” divelti, muri imbrattati e marciapiedi scassati, segnaletica stradale ricoperta di graffiti. E poi centinaia di bottiglie vuote di birra gettate in terra o accatastate ai piedi di monumenti.

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Perfino il Lungotevere, uno dei luoghi più romantici della città, quello dove  gli innamorati andavano “a scambiasse li baci a mille sotto l’arberi”, si presenta sporco e trasandato con i rami dei platani che anziché crescere verso l’alto puntano in basso, manco fossero dei salici piangenti.

Alberi belli, grandi e solenni, ma totalmente snaturati.

Quello che colpisce di più sono però  i tantissimi alberi cresciuti sul greto del fiume specie sulle sponde tra Ponte Sisto e il Ponte Rotto; non alberi tipici delle banchine fluviali, come salici o pioppi, ma anche qui “platani” venuti su tra le fessure del travertino o su piccole rive sabbiose.

Platani come giunchi o papiri; certo belli a vedersi e verdi e, nonostante la giovane età, rigogliosi ma ovviamente cresciuti nel luogo sbagliato.

Da anni Roma, come la maggior parte delle città della “fascia temperata”, è soggetta all’alternanza di periodi siccitosi con eventi di straordinaria violenza dove le piogge, intensissime, si concentrano nello spazio di pochi giorni e ore.

La enorme quantità di acqua che raggiunge il terreno, non più assorbita e neppure smaltita dal sistema fognario, va ad alimentare i fossi e i corsi d’acqua generando piene impressionanti che tutto travolgono.

Qualsiasi ostacolo sulle banchine viene trascinato via e va a formare quei micidiali “tappi” all’origine di innumerevoli disastri; nella migliore delle ipotesi gli alberi, ridotti a scheletri, raccolgono migliaia di sacchetti di plastica o altri rifiuti, trasformando il Tevere in una specie di discarica a cielo aperto.

Nell’osservare questa vegetazione tanto bella quanto scomposta viene da interrogarsi se esiste nella nostra città un qualcuno proposto alla vigilanza del fiume e delle sue sponde;  di primo acchito ci verrebbe da dire che in realtà non c’è nessuno e che tutto è lasciato al caso.

Si badi bene che qui non stiamo parlando di “boschi ripariali” formati da alberi che amano l’umidità (pioppi, salici, tigli, aceri, ontani…) e che costituiscono una fascia di rispetto, un vero e proprio tampone, tra il fiume e gli ambienti circostanti.

Parliamo di una vegetazione spontanea cresciuta in maniera disordinata (come le centinaia di “ailanti” che crescono all’interno dei guard-rail) perché nessuno vigila e interviene secondo precise linee guida. E nel frattempo continua inesorabile la moria di pesci.

Francesco Gargaglia

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1 commento

  1. A Roma Nord siamo invasi anche dall’Ailanto, albero che cresce ormai dappertutto (sulla via Flaminia lungo il guard rail ha praticamente soppiantato gli oleandri) e che in alcuni punti come in fondo al viadotto di Corso francia ha creato dei veri e propri boschetti; in pratica non esiste più una gestione del verde cittadino ed è tutto lasciato al caso, come per i pini che stanno morendo per la cocciniglia (come a via Fleming e a Villa Glori) e i tanti alberi morti mai non più sostituiti di cui restano lungo le strade e i marciapiedi ormai solo i tronchi mozzi circondati dalle erbacce.

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