Il 21esimo secolo è ovunque: tra le pagine di un libro, negli occhi di chi legge e nelle orecchie di chi ascolta. Lo abbiamo sperimentato da Libri & Bar Pallotta giovedì 23 aprile, in una serata dedicata all’autore Paolo Zardi e al suo ultimo romanzo, XXI Secolo, storia ambientata in un futuro vicino, in cui un uomo deve affrontare una difficile scoperta personale e dare un spiegazione.
Presentazione ricca di suggestioni, ha visto anche l’intervento di Francesca Fioretta della Casa editrice Neo, e dell’autrice Gaja Lombardi Cenciarelli, per la lettura di alcuni brani, frammenti di umanità calata in una distopia forse neanche troppo improbabile.
L’autore ha accettato di rispondere a qualche domanda di VignaClaraBlog.it su questo romanzo che forse, più che di uno dei peggiori mondi possibili, parla ancora una volta di umanità, forse nel migliore dei modi possibili.
Per cominciare…Come nasce XXI Secolo? XXI Secolo ha avuto una gestazione un po’ travagliata. Nasce come idea germinale intorno al gennaio del 2013; si pensava di creare una specie di thriller con un’indagine giudiziaria, incentrato su un magistrato e un omicidio. Alla fine mi sono reso conto che non era nelle mie corde: ho mollato tutto e l’ho buttato via.
Poi a ottobre ho ripreso da zero, con la stessa idea, ma raccontata in modo completamente diverso, con un’ambientazione completamente diversa: quando ho trovato la giusta voce, il giusto modo di raccontarla poi in sei mesi sono arrivato alla fine, con una storia in cui l’idea era di descrivere quale fosse l’effetto che produce il 21esimo secolo sulle persone comuni, per chi vive una vita normale e deve tirare avanti fino a fine mese.
Ti concentri molto sul punto di vista del protagonista, ma viene spontaneo chiedersi se hai mai sentito l’esigenza di soffermarti anche su altri personaggi, di cui si intuisce la storia “sotterranea” tra le righe. Mi rendo conto che i miei libri – così anche l’altro mio romanzo (Il signor Bovary, edito da Intermezzi Editore, NdR) c’è sempre il punto di vista di un personaggio; questo secondo me dipende dal fatto che la mia voce narrante è molto vicina al personaggio principale. Non è una voce che guarda dall’alto le cose; è una terza persona che quasi è una prima persona, una e mezza diciamo. Per cui farei fatica a raccontare il punto di vista degli altri personaggi.
C’è molto di me, non dal punto di vista delle vicende vissute o del modo di vedere il mondo: si potrebbe dire che è un “frullato di me.” Io prendo tutto quello che ho vissuto, quello che vedo, quello che sento, quello che leggo, poi lo sottopongo a un processo di “frullamento” e poi cerco di ricomporre tutti i pezzi, costruendo qualcosa di diverso.
Ogni singolo pezzo in questo libro è effettivamente qualcuno o qualcosa di reale: ci sono palazzi che ho visto in Ucraina, c’è un palazzo che ho visto a Milano, c’è una casa che ho visto dalle parti del Trentino – Alto Adige. Io non credo che qualcuno possa davvero riuscire a scrivere qualcosa che sia altro, oltre a sé. Chi scrive letteratura finisce sempre a scrivere storie che hanno a che fare con la propria vita, con la propria esperienza.
E per parlare del passato, ci spieghi cos’è esattamente l’antropometria nel tuo romanzo? E’ proprio la misura dell’uomo. Il particolare sguardo che io tendo ad adottare quando scrivo, uno sguardo che forse deriva dalla mia formazione di ingegnere, questa tendenza a studiare un fenomeno nel modo più oggettivo possibile, prima del passaggio al sentimento, all’emozione. Si tratta di un approccio un po’ galileiano, quello che c’è da Flaubert in poi. Prima, gli autori davano una propria interpretazione del mondo, erano in un certo senso “aristotelici”.
Quali sono le cause, perché succedono le cose? Da Flaubert in poi c’è un approccio ingegneristico – galileiano: io osservo un fenomeno, lo descrivo per quello che è, le conseguenze poi le trae il lettore, che ne trae la morale. Per cui antropometria è questo: io misuro questi corpi e li espongo, poi la soluzione la trova il lettore.
Il tuo libro è presente nella magnifica dozzina dei semifinalisti del Premio Strega; ti senti un po’ un outsider rispetto ad altri? Sì ed è una cosa bellissima. Mi sono sempre sentito bene in questi panni: io ho iniziato tardi a scrivere, verso i quarant’anni, perché mi piaceva, non con il pensiero di pubblicare per forza, a tutti i costi. Il rapporto con un editore più piccolo tende a essere più stretto nelle diverse fasi del lavoro e può essere molto bello.
Una volta stavo con Francesco Coscioni (uno dei due editori della Neo Edizioni, l’altro è Angelo Biasella, NdA) e stava leggendo uno dei racconti di “Il giorno che diventammo umani”, disse che non stava riuscendo a finirlo perché aveva le lacrime agli occhi. Per cui essere un “outsider”, in questo senso, è molto bello.
Per concludere, credi nello scenario che hai descritto? Hai voluto dare in qualche modo un avvertimento? Sì, credo che quanto viene descritto nel libro sia uno scenario possibile. In alcuni posti è già realtà, nelle storie di chi ha perso tutto, che vive in una macchina e ha una famiglia da mantenere; io ovviamente spero che ciò non accada e che la situazione possa cambiare, ma ora come ora il 21esimo secolo nel libro è sicuramente uno scenario possibile.
Io non credo però che il compito dello scrittore sia dare un avvertimento, ma presentare un punto di vista; per questo anche preferisco non associare questo romanzo a un’allegoria, quanto piuttosto a una metafora.
Flavia Sciolette
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