Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’…. Lo sappiamo, sembra scontato, invece è un doveroso richiamo alla canzone di Lucio Dalla, uno dei cantautori che più ha lasciato il vuoto nell’universo discografico. Scontato, è vero, ma combacia perfettamente con quello che vorremmo raccontare.
L’anno che verrà
È riconosciuto come uno dei più grandi successi del cantautore bolognese. Carta, penna e calamaio, e una lettera all’amico lontano che trova i connotati in ogni persona che semplicemente fischietta o canticchia la canzone, o ancor di più riflette su quelle parole.
Descrizione di una Italia, quella degli anni di piombo, chiusa e grigia nel suo finto perbenismo, quasi immobile.
Ironiche ma pungenti, quelle parole scuotono la staticità degli italiani donando loro una “novità” per la quale l’autore si dice in procinto di prepararsi. Era il 1979, e la lettera rappresentava ancora il mezzo di comunicazione più intimo e usato. Sms, WhatsApp e Social Network erano ben lontani dall’immaginario collettivo.
La carta da lettera e il suo profumo
Nelle cartolibrerie c’era solitamente uno scaffale dedicato alla carta da lettera. Confezione con un tot di fogli, buste di spedizione comprese, ma si acquistava pure solo un singolo pezzo, anche nei “Sali e tabacchi”. Foglio bianco per uso generico e informale.
Fogli stampati a tema specifico. Epistole romantiche, fiori su sfondo tenue o leggiadre donne su un’altalena di foglie, o ancora tramonti accennati in mille sfumature e onde di un mare agitato che lasciano conchiglie sulla spiaggia. Un soffio di profumo, di quello spray dedicato alla carta, che impregnava foglio e busta senza macchia o aloni, a inebriare il destinatario.
La si trovava anche negli hotel di lusso, a quattro o cinque stelle, con lo stemma dell’albergo quasi come un regalo, elegantemente custodita in una cartellina anch’essa rigorosamente griffata. La carta, da quella un po’ più pesante a quasi velina, che la penna doveva scorrere leggera per non forarla.
Una lettera era una pagina di vita, un racconto intimo riservato, un modo per sentirsi vicini seppure lontani. Era un modo di raccontare e raccontarsi. Era un concentrato di emozioni che prendeva forma attraverso le parole. Era un mondo racchiuso in una busta.
Il tempo si fermava davanti a carta, penna e calamaio. Il resto del mondo si annientava, e l’attenzione era catturata solamente da quel pezzo di carta, ambasciatore di emozioni e di sentimenti, troppo spesso talmente personali da poterne tracciare il profilo genetico.
Ci si immergeva in un monologo, senza freni e censure, e quella epistola diventava un pezzo di se stessi.
Quel parallelepipedo dimenticato
Avete presente le cassette postali? Quei parallelepipedi rossi, nelle grandi città con due finestre “mangia busta”, nei piccoli paesi unico pertugio.
Quanti si sono soffermati, plico da spedire, davanti a questi bugigattolini: “per la città” e “per tutte e altre destinazioni”. Solitamente vicino ai rivenditori di valori bollati, francobollo leccato a lasciarti quell’amarognolo in bocca, e la trepidazione dell’abbandono della missiva.
Oggi, quelle cassette sono spazi per la pubblicità di qualche “kebbabbaro” o di qualche ditta di traslochi o facchinaggio. Passano quasi inosservate, se non per quei foglietti promozionali attaccati alla meno peggio.
Altro modo di esprimersi
Sono cambiati i tempi, carta penna e calamaio sono pressoché in disuso. Sms, Social Network e WhatsApp hanno segnato un nuovo modo di comunicare. Ci si affida a questi, contatto immediato senza postino.
Telefonino, smartphone e tablet a portata di dito, e ogni pensiero vola. Fibra ottica a parte i rapporti, personali e non, si manifestano in un invio. Busta animata con le ali, per quei telefoni ormai datati, a confermare l’inoltro dello short message service.
Utenti non destinatari
Si crea un profilo sui social, che può contenere foto, elenco di interessi e hobby, si formano gruppi uniti da una telematica condivisione di argomenti. Si ostenta un profilo virtuale, dove vero e falso si fondono, tanto che, a rileggerlo, lo stesso autore stenta a riconoscersi. E, se un tempo si aspettava il postino, oggi si aspetta di essere “taggati”.
Si attende la “chiamata in chat” e si ha la certezza dell’immediatezza di replica se si è pronti a “laggare”.
Si è connessi, per semplice curiosità o per reale interesse. O perché, diversamente, sei fuori dal gruppo. Si disquisisce a volte senza sapere su cosa, l’importante è condividere e essere condiviso.
Ma soprattutto ci si “confessa”.
Ci si lancia in dissertazioni intime, quasi a voler spartire qualcosa della propria vita con un mondo infinito di utenti, reali ma invisibili, che non ti guardano negli occhi, specchio intimo di un’anima ormai cibernetica. Sembra solo apparire, e non essere. Importa ciò che sembra, e non ciò che realmente è.
Ci si improvvisa tuttologi, filosofi, saccentoni e pensatori. Ci si crea una identità patinata, si ostenta la famiglia del mulino bianco, le feste comandate tutti insieme appassionatamente, le vacanze ai Caraibi e la settimana bianca a Cortina.
Si posta la gravidanza, dal momento del concepimento alla nascita, e foto segnaletiche del pancione, chili e centimetri ingrassati costantemente monitorati e resi noti, che poi è inutile l’anamnesi in cartella clinica.
Si posta la decisione di farsi crescere la barba, ogni millimetro cresciuto regolarmente offerto come incredibile traguardo raggiunto. Il pupo che mangia, il compagno che dorme, anche l’intimità della sala da bagno ormai ha perso il suo perché: tutto è vissuto sotto l’occhio del web.
Ricercando il tanto agognato “mi piace”, si postano foto di piatti cucinati per la delizia del palato di chissà chi, la macchina nuova e la casa in campagna, i danni dell’ultima alluvione a sperare sia la meglio su migliaia. Universo immateriale di pseudo “Andy Warhol dè noantri”.
E si usa un linguaggio da far accapponare la pelle al misero Dante, e povera Accademia della Crusca.
Avverbi, preposizioni, congiunzioni: tutto è mutilato, per rapidità di risposta. Chi, seppur non latinista, ama ancora il buon lessico italiano, si perde a decifrare questi pseudo acronimi, figli di generazioni che fagocitano pagine di siti internet, lasciando impolverare pagine di storia raccontate nei libri.
Si, malinconia di carta penna e calamaio, che abituava alla scrittura, alla lettura e alla riflessione. Nostalgia dell’odore del foglio, delle sbavature dell’inchiostro, delle “orecchie al foglio” inavvertitamente create a strusciare la carta. Rimpianto per quei rapporti sinceri, veri, profondi, esclusivi.
O semplicemente arcaica voglia di riservatezza, come quella della nonna, che una volta chiusa la porta di casa si può girare anche in mutande e con le dita nel naso. Anche se, per i miei figli, sono e resterò una “Asocial home”.
Sonia Lombardi
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