Il 21 dicembre 1863 Giuseppe Gioachino Belli moriva all’età di 72 anni. Oggi vogliamo ricordare il grande poeta de noantri attraverso quattordici sonetti che si riferiscono alla zona nord di Roma. Eccoci, quindi, in viaggio insieme al Belli, nel tragitto che da Ponte Milvio conduce a Baccano: dopo una deviazione per Monte Mario, prendiamo la Cassia e, superata la Tomba di Nerone, raggiungiamo La Storta e facciamo tappa nel borgo della Merluzza, prima di arrivare nel territorio dell’odierna Campagnano.
“Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene una impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo.”
Con queste parole lo stesso Belli introduceva il suo cospicuo corpus di 2279 sonetti in vernacolo romanesco, che rappresentano non soltanto un’opera di inestimabile valore artistico e letterario, ma anche un prezioso trattato di sociologia e un’inimitabile testimonianza storica, proprio perché “fotografano” e consegnano ai posteri, attraverso il talento, la sensibilità e la fantasia del poeta, un aggregato umano assai peculiare che viveva – pensava, parlava, argomentava, credeva e agiva – in un determinato momento storico.
Con le sue poesie il Belli ci ha trasmesso, intatta e vibrante, la voce della plebe della Roma del XIX secolo; una voce sguaiata e disincantata, superstiziosa eppure devota, crudele e beffarda, acuta, ironica e greve, ribelle e conservatrice allo stesso tempo. Non è dato sapere in quale misura il Belli condividesse le sensazioni, le considerazioni e lo spirito che confluirono nelle sue meravigliose composizioni vernacolari: la sua determinazione, come abbiamo ricordato prima, non era tanto quella di far emergere e veicolare il proprio pensiero, ma quella di scolpire un monumento, il monumento vivido al popolo del suo tempo e del suo spazio.
E riuscì nel proprio intento, nonostante le sue stesse disposizioni testamentarie. Infatti, il poeta – che consumò la sua esistenza nell’arco temporale che va dalla Rivoluzione Francese all’Unità d’Italia, passando attraverso il lunghissimo e controverso pontificato di Pio IX, l’ultimo Papa Re, e la Repubblica Romana del 1849 -, il modesto impiegato pubblico, il fedele suddito dello Stato Pontificio, il reazionario e il censore delle opere di William Shakespeare, consegnato che ebbe il manoscritto dei suoi sonetti nelle mani di un amico, monsignor Vincenzo Tizzani, gli ordinò di bruciarlo alla sua morte, ma il prelato (fortunatamente per tutti noi) non solo gli disubbidì ma, conoscendo il valore delle composizioni del Belli, si impegnò anche moltissimo per la loro diffusione.
E, allora, pieni di riconoscenza per il gesto illuminato di monsignor Tizzani, avvalendoci anche del lavoro accurato che il professor Marcello Teodonio ha svolto sull’intera opera belliana e utilizzando, in particolare, i suoi preziosi commenti contenuti nei quattro volumi di “Tutti i Sonetti Romaneschi” (Newton & Compton editore, 2005), abbiamo selezionato quattordici composizioni che riguardano il territorio di riferimento di VignaClaraBlog.it, quattordici sonetti che citano Ponte Milvio, Monte Mario, Tomba di Nerone, La Storta, il borgo e dintorni della Merluzza e Baccano, zona, quest’ultima, inclusa nell’attuale comune di Campagnano.
Prima di farci accompagnare dal Belli in questa “escursione poetica” a Roma Nord (o a nord di Roma, se consideriamo i confini della città ai tempi in cui il poeta visse), è sorprendente considerare come tale scelta, dettata dal solo criterio della territorialità e quindi, per questo, limitata nel numero e, potenzialmente, anche nei contenuti, si sia rivelata, invece, significativa e ricca, profilandosi come una selezione adatta a fornirci un’idea chiara delle svariate tematiche che il Belli affrontava nei suoi sonetti.
In queste quattordici composizioni troviamo, infatti, una satira feroce contro la nobiltà romana, un’invettiva sinistra e visionaria contro il Papa e i cardinali, un modo curioso per giocare a ruzzica, una beffarda critica della vigliaccheria dei soldati pontifici, la confutazione scherzosa della rotondità della Terra, una condanna spigolosa del tabagismo, credenze, modi di dire e usi popolari molto significativi, e insulti vari e assai coloriti. E molto altro ancora.
PONTE MILVIO
Il nostro viaggio in compagnia di Giuseppe Gioachino Belli parte da Ponte Milvio.
Provate a chiudere gli occhi e a immaginare che gli edifici moderni e le automobili scompaiano, provate a immaginare di poter tornare indietro nel tempo, di poter risalire fino al 1845, per esempio. La Torretta Valadier ha quattro decenni di vita, la strada polverosa che conduce verso Ponte Milvio è percorsa da qualche, raro, calesse, da qualche parte si intravede una vigna. D’altronde siamo a tre, quattro chilometri da Roma, siamo in campagna, qui la vita è tranquilla, anche se il rischio di incontrare qualche brigante non è infondato.
“Perché ppe ggallinaccio / nun vai tu invece ar tiro a pontemollo? / Cusì arisparmi una stirata ar collo”: sono alcuni versi de La dogana de terra a piazza-de-Pietra, un lungo sonetto che il Belli scrisse nel 1831 per esercitarsi e divertirsi con le rime.
La composizione, che oggi si definirebbe nonsense, riporta una discussione del tutto priva di significato nel corso della quale i due protagonisti, Nino e Peppe, si insultano in maniera fantasiosa e crescente. Nel caso dei versi prima citati, con i quali Peppe insolentisce pesantemente Nino (“perché non fai da bersaglio?”, gli dice), il Belli si riferisce all’usanza, invalsa nei pressi di Ponte Milvio come altrove, di offrire in premio al tiratore il gallinaccio appena abbattuto.
MONTE MARIO
Dopo aver lasciato Ponte Milvio e prima di ritornarci per un’altra sosta più lunga, immaginate ora di seguire brevemente il corso del Tevere, ancora biondo ed inviolato, fino ad arrivare laddove oggi sorgono il Foro Italico e lo Stadio Olimpico. Da qui è possibile scorgere una buona porzione di Monte Mario, scenario di ben quatto sonetti belliani.
Il primo che vogliamo ricordare è Er giuveddì e vvenardì santo, un sonetto sinistro e visionario, datato 1835, che contiene una violenta invettiva contro il Papa, che a quel tempo era Gregorio XVI. Qui il Belli gli riserva la stessa sorte di Gesù (” bbisoggnerebbe métteje una canna / in mano e in testa una coron de spine: / poi fraggellallo a la colonna, e infine / proscessallo e spidijje la condanna”) e alla tiepida e strumentale obiezione di qualcuno («Ma a Rroma nun ce sta Ccarvario»), il poeta risponde che, se è solo questo il problema (“Si cconzisteno cqui ttutti li mali”) il rimedio è facile da trovare: ” s’inarbera la crosce a Mmonte-Mario. / E llassú oggn’anno, a li tempi pasquali, / ce s’averebbe da inchiodà un Vicario / de Cristo, e accanto a llui du’ Cardinali.”).
Di tenore assai diverso è Er fumà, un sonetto scritto nel 1832 che prende di mira i fumatori e sottolinea i danni del tabagismo. L’incipit è devastante: “Ma cche tte fumi, di’, sia mmaledetto / hai la faccia color de Monte Mario, / tienghi, peccristo, scerte coste in petto / da mettele pe mmostra in zur Carvario”. Come si vede, qui il Belli, per descrivere il colorito malsano del viso del fumatore accanito, fa un acuto riferimento alle sabbie gialle di origine antica che caratterizzano la composizione del terreno di Monte Mario.
Nel terzo sonetto riservato all’altura che ai tempi dei romani era chiamata Clivus Cinnae, Er gioco de la ruzzica, datato 1831, il poeta prende a pretesto l’antico gioco di origine contadina per insultare pesantemente Dodato, un presuntuoso e maldestro giocatore: “Sta cacca de fà a rruzzica, Dodato, / co la smaniaccia d’abbuscà ll’evviva, / nun è ggiro pe tté, / cche nun hai fiato / de strillà mmanco peperoni e oliva.” In un crescendo di ironia cattiva e di insolenze colorite (“Come sce pôi ggiucà, tisico nato, / senza dajje ‘na càccola d’abbriva? / Nun vedi la tu’ ruzzica sur prato / c’appena ar fin de ‘na scorreggia arriva?”), il Belli si prepara magistralmente un finale dirompente (“Stattene in pasce: ggnisuno te stuzzica; / si ppoi vôi vince tu, vva’ a Montemario, / pijja la scurza e bbutta ggiú la ruzzica.”), indicando al povero Dodato l’unica maniera di poter vincere: prendere la rincorsa e buttarsi giù da Monte Mario.
Infine, ne La faccia der Monno, scritto nel 1836, il poeta chiarisce, non proprio scientificamente ma assai scherzosamente, che a Roma e dintorni esistono prove inconfutabili che la Terra non è rotonda: “C’è inzíno chi ssostiè ch’er Monno è ttonno, / eppuro nun è ttonno un accidente. / Tutt’è pperché a le cose scerte ggente / nun ce vonno arifrette, nun ce vonno. / Pe ttutto o sse salissce o sse va a ffonno:/…/ Va’ a Ssan Pietro-Montorio, a Mmonte-Mario, / ar Pincio, a Ttivoli, a Rrocca-de-Papa…/ sempre sce troverai quarche ddivario.”
La gente non riflette abbastanza: la Terra non può essere rotonda, visto che dovunque vai – a San Pietro in Montorio, a Monte Mario, al Pincio, etc. – è tutto un saliscendi!
ANCORA A PONTE MILVIO
Lasciata la suggestiva visuale di Monte Mario, torniamo sui nostri passi verso Ponte Milvio, teatro di un’altra composizione del Belli.
Er duca e ‘r dragone consta di due sonetti scritti all’inizio del 1835 e mette alla berlina la nobiltà romana. Il Duca di Poli don Marino Torlonia (il “povero duchino” che “poteva passà addirittura pe una cruna d’aco”), guidando un calesse nei pressi di Ponte Milvio, vide un dragone pontificio che “ar zentisse dì ubbriaco”, assalì il Duca stesso (definito ironicamente “ciumaco”, ossia fanciulletto) con una pistola. Il Duca balzò giù dal calesse e, inseguito dal soldato, entrò in una vigna e si chiuse dentro ad un fabbricato là vicino.
Nel frattempo arrivarono il vignaiolo e “ddu’ garzoni” che colpirono il malcapitato dragone con un calcio ben assestato sulle parti intime (“investirno er zordato, e ssur tinello / l’affermonno co un carcio a li cojoni”). Proprio nel finale del primo dei due sonetti ( “A sto carcio, er zor Prencipe de drento, / forzi pe ssimpatia da bbon granello, / fesce un strillo futtuto de conzento.”) la beffarda perfidia del Belli raggiunge il suo apice, essendo qui accomunate le parti intime offese alla tempra morale del nobile (“granello” significa “testicolo”).
TOMBA DI NERONE
Abbandonata la vigna, da dove il povero Duca è uscito tremante ma indenne dopo che il dragone pontificio è stato finalmente da altri immobilizzato, ci lasciamo alle spalle anche Ponte Milvio e imbocchiamo la via Cassia. La nostra prossima destinazione è la zona di Tomba di Nerone, precisamente il monumento funebre dedicato a Publio Vibio Mariano, considerato dal Belli nel suo sonetto Un deposito, scritto nel 1831.
Prima di esaminare questa composizione, è bene ricordare che nel corso del Medio Evo si diffuse una credenza popolare secondo la quale l’imponente sepolcro del Procuratore della Sardegna, posto all’altezza del km 9,800 della via Cassia, fosse invece la tomba dell’Imperatore Nerone. Gli strascichi della leggenda sono in qualche modo arrivati fino ai giorni nostri visto che questa zona è tuttora indicata con il toponimo di Tomba di Nerone.
La prima quartina di “Un deposito” contiene l’indicazione approssimativa del luogo (“Dove nassce la cassia, a mmanimanca, / nò a ppontemollo, tre mmía piú llontano”), la descrizione irrispettosa del sarcofago (“ce sta ccome un casson de pietra bbianca /o nnera”) e l’intenzionale fraintendimento di una sigla contenuta nell’epigrafe (“cor P. P. der posa-piano”). In realtà tale sigla designa le cariche di Publio Vibio Mariano (Proconsole e Preside della Provincia di Sardegna), ma il Belli volutamente ne equivoca il significato tirando in ballo, invece, la sigla che indicava l’avvertenza che veniva apposta sugli imballaggi contenenti oggetti fragili e delicati (“posa-piano” è l’equivalente dell’attuale “fragile” o “maneggiare con cura”).
Nella seconda quartina (“Lí, a Rromavecchia, ha dditto l’artebbianca / ce sotterronno un certo sor Mariano, / che mmorze de ‘na palla in una scianca /a la guerra indov’era capitano”) la realtà dei fatti diventa la diceria inattendibile del fornaio, il quale viene indicato con il termine meraviglioso e perduto – “l’artebbianca” – che connota il suo mestiere.
Nelle terzine conclusive Belli continua a rappresentare mirabilmente il punto di vista della plebe e fa due ipotesi: o il morto è stato scambiato con un altro e allora ci si meraviglia che il governo non vi abbia posto rimedio (“Duncue, o cqui er morto è stato sbarattato; / e allora me stordisco de raggione / ch’er governo nun ciabbi arimediato”), oppure chi ha scritto l’epitaffio era un balordo e uno stupido (“O cchi ha scritto er pitaffio era un cojjone: / perché, da sí cch’er monno s’è ccreato, / questa è la sepportura de Nerone”).
LA STORTA
Lasciamo la zona di Tomba di Nerone e continuiamo a percorrere la Cassia in direzione nord. La nostra prossima tappa è La Storta, che anticamente era la prima stazione di posta dei cavalli uscendo da Roma. Per quanto riguarda questo luogo dell’Agro Romano, abbiamo selezionato tre sonetti.
Il primo, Spenni poco e stai bene, è una gustosissima descrizione del trattamento che i locandieri esosi delle stazioni di posta riservavano ai viaggiatori loro clienti (“Càpita a Monte-Rosi, o a li confini, / la Storta vojjo dí, Nnepi e Bbaccano; / e nnun te dubbità: sei ‘n bone mano, ch’è ttutta ‘na fajola d’assassini”), una “recensione” impietosa del 1831 (“Te coceno du’ polli bbufolini: / te cacceno un vinetto de Pissciano / battezzato coll’acqua de pantano: / te danno un letto morbido de spini. / Te metteno la notte in compagnia / purce, zampane, cimisce e ppidocchi, / che tte fanno cantà Vviva Maria!) che non sfigurerebbe affatto sull’odierno tripadvisor e che si conclude con una sveglia che arriva sempre troppo presto: “E cquanno er zonno t’ha sserrato l’occhi / te viengheno a cchiamà per annà vvia. /E ttutto questo pe ppochi bbaiocchi.”
Il secondo, Lo Spunto de cassa, fu composto nel 1834 e si conclude con un riferimento ad un vecchio proverbio romano che sta a significare che in questo mondo non c’è giustizia: “Ggiusto fu impiccato a la Storta”, scrive il Belli riproponendo l’espressione nata a Roma nel XVI secolo. Si racconta che, infatti, ai tempi del pontificato di Sisto V, un certo Giusto, accusato di un reato gravissimo, mentre rientrava tranquillamente a Roma, fu catturato dalle guardie papali a La Storta e immediatamente impiccato, senza avere la possibilità di difendersi nel processo.
Il terzo ed ultimo sonetto dedicato a La Storta è La partenza der primo bbattajjone. Scritta nel 1844, questa poesia esprime, soprattutto nella sua parte conclusiva, tutto il disprezzo per la vigliaccheria dei soldati pontifici: qualcuno, fra la folla assiepata per vedere la partenza del primo battaglione, suggerisce l’ipotesi che, arrivati nell’Agro Romano, i soldati corressero il rischio di essere assaliti dai briganti (“ortre er risico poi de l’assassini”), ma qualcun altro, assai più disincantato e crudele ribatte prontamente che non c’è questo pericolo dato che i soldati, giunti a La Storta, sono scortati da altri soldati (“Ah in quant’a cquesto no; pperché a la Storta, / sibbè cche nun portassino quadrini / se disce che ppijjaveno la scorta”).
LA MERLUZZA
Lasciata La Storta, seguiamo ancora la Cassia verso il vecchio borgo della Merluzza, dalle parti di Cesano. Anticamente il borgo della Merluzza era un’altra stazione di posta e fin dal Medio Evo la zona era conosciuta perché vi sorgeva l’osteria “Tor Merluzza”. Il nome di questa località deriva da una giovane merla che, rimasta intrappolata nella torre della tenuta, cantava soavemente nelle notti di luna piena.
Sempre secondo la leggenda, il canto melodioso dell’uccello si può ascoltare ancora oggi ed è di buon auspicio. Situato nel cuore della tenuta del bosco di Baccano, il luogo e la foresta che lo circonda, ai tempi del Belli, erano infestati da masnadieri e briganti di ogni risma.
Nel sonetto intitolato Li malincontri (1831), il poeta ci racconta l’epilogo violento dell’esistenza di un vetturino e lo fa avvalendosi di espressioni a dir poco colorite e di immagini crude ed efficaci. Nella prima quartina troviamo un modo di dire molto particolare (“Si tte piasce er zalame”, “se ti piace il salame” equivale a “certo, così è “), una stringatissima descrizione dell’accaduto (“Padron Biascio fu assassinato attacc’a la Merluzza”) e la pittoresca insistenza del narratore circa la veridicità della storia che sta raccontando (“Dimme de nò! ppuzza de cascio puzza! / E intiggnete a nnegà! ppuzza de cascio!”).
Nella seconda quartina (“Quer vitturino testa de cucuzza / mannava li sturioni adasciadascio, / e jje fasceva er verzo che ffa er bascio / quanno tra mmaschio e ffemmina se ruzza.”) il poeta sembra addossare la responsabilità dell’accaduto al vetturino stesso, a “quella testa di cucuzza che faceva avanzare i cavalli troppo lentamente, adagio adagio, e faceva loro il verso del bacio, di quando ci si stuzzica fra uomo e donna”.
Nelle due terzine conclusive, la situazione precipita rapidamente: la carrozza viene assalita improvvisamente da sette o otto energumeni (“zett’o otto pezzi d’irededdio”) che pongono fine alla vita dello sventurato vetturino.
Il secondo sonetto che abbiamo selezionato, Er poverello muto (1831), per usare il commento del professor Teodonio, “delinea la figura di un altro personaggio memorabile di questa Roma minima e un po’ sordida, esempio d’una umanità contraddittoria ed affannata, tanto ridicolo quanto, a modo suo, abile, insopportabile e candidamente scoperto: si tratta di un imbroglione che si fingeva muto per poter così ottenere qualche elemosina.”
Quando viene scoperto, il finto muto accusa il suo ex benefattore di scarsa generosità, (“Che mme dava er zor Conte oggni matina? / La carità cche nnun ze nega ar cane. / Cquarche ppezzo avanzato de gallina, / un piattin de minestra e un po’ de pane”) lo paragona ad un brigante (“Che bbella carità de la Merluzza!”) e tenta addirittura di far passare per un miracolo il suo preteso ritorno alla parola (“Perché Ddomminiddio m’ha provveduto / de parlà, cc’è da fà ttutta sta puzza!”).
BACCANO
Il nostro viaggio in compagnia di Giuseppe Gioachino Belli si conclude a Baccano, all’interno del territorio dell’odierno comune di Campagnano. Il sonetto si chiama Er viaggio de l’Apostoli ed è datato1833. Leggiamolo insieme:
Morto er Ziggnor’Iddio da bbon cristiano,
oggni apostolo vivo, a ppiede a ppiede,
se messe in giro a ppredicà la fede
cor zacco in collo e ccor bastone in mano.
Uno aggnede a la Storta, uno a Bbaccano,
un antro a Mmonterosi, e un antro aggnede
a Nnepi; e in ner viaggià, ccome succede,
véddeno tutto er Monno sano sano.
Naturarmente, ar Monno, oggni paese
aveva la su’ lingua, chi spaggnola,
chi ttodesca, chi rrussia, e cchi ffrancese.
Eppuro quelli co una lingua sola
se fesceno capí dda chi l’intese,
che nun ze ne spregò mmezza parola.
In questo caso non c’è bisogno di commentare molto o di precisare qualcosa: il sonetto è chiaro e bellissimo, delicato e rispettoso. E ci fornisce anche lo spunto ideale per concludere questo nostro excursus nella poesia del Belli. Infatti, i tre versi finali, decontestualizzati e riferiti a ciò che il poeta ha saputo fare con le rime e con l’arguzia, gli si attagliano perfettamente. Rileggiamoli insieme: “Eppuro quelli co una lingua sola / se fesceno capí dda chi l’intese, /che nun ze ne spregò mmezza parola.“
Giovanni Berti
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c’è un’ altro sonetto del Belli che si intitola Sant’Angelo che termina così ” è quasi come Pontemollo, è mollo un cacchio e chi lo vò capillo se lo facesse dà fra capo e collo”