A volte è straordinario come si possa cambiare veste rimanendo sempre uguali, come ci si possa evolvere restando fedeli al proprio stile. E il caso dei Baustelle, in questo senso, fa davvero scuola. Lo spettacolo dal vivo che la band di Montepulciano sta portando in tour nella Penisola e che sabato 27 luglio ha fatto tappa all’Auditorium Parco della Musica di Roma, mostra infatti il lato più ardimentoso della stessa band, che pur di imprimere una chiara svolta al proprio percorso artistico non ha esitato a intraprendere la strada più difficile, quella “colta”, della musica sinfonica.
E Fantasma, il nuovo album pubblicato a fine gennaio, è la prova provata di tale coraggio.
Per molti uno shock, per altri la naturale evoluzione di una band che ha sempre mostrato di prediligere un approccio intellettuale, a tratti snob, condito da un gusto apertamente retro nella scelta delle sonorità, delle atmosfere, delle tematiche affrontate.
I Baustelle sono senza dubbio la band italiana odierna che più di ogni altra sarebbe stata più a proprio agio nell’epoca a cavallo tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso.
In parecchi non hanno digerito l’attuale cambio di rotta di Bianconi e soci, peraltro ampiamente annunciato se si guarda al recente passato della band, tuttavia la scelta sta dando ottimi frutti sia dal punto di vista artistico che commerciale, anche se gli spalti della Cavea in questa serata romana di fine luglio risultano vuoti per metà, tanto che quando a cinque minuti dall’inizio appare chiaro che le tribune centrali rimarranno mestamente vuote (visti anche i prezzi tutt’altro che popolari) , coloro che siedono in laterale danno vita ad un esodo di massa per accaparrarsi la visuale migliore.
Lo show è una riproposizione quasi per intero del loro ultimo disco ed è diviso in tre atti, come un’opera lirica. Del resto, che non siamo ad un concerto inteso nel senso più canonico lo si capisce fin dall’inizio. Non sembrano neanche loro.
Il primo atto è interamente consacrato alla presentazione dei nuovi brani, ed è questa la parte migliore.
La sequenza dei pezzi, però, viene rimescolata rispetto alla tracklist.
Si comincia con l’intro affidato alle note di Fantasma (titoli di testa), per poi passare alle suggestioni morriconiane de Il Futuro e Nessuno. E giù lacrime fin dall’inizio.
Seguono a ruota Il Finale, Radioattività e Diorama, con arrangiamenti epici e struggenti eseguiti dall’orchestra di trenta elementi posta alle spalle della band.
Una menzione particolare la meritano i testi dei nuovo brani, intensi, poetici, musicali, meravigliosi.
Bianconi e soci siedono su sgabelli, con il barbuto leader a mo’ di novello chansonnier affiancato alla sua destra da Claudio Brasini alla chitarra, e a sinistra da un’elegante e suadente Rachele Bastreghi al piano e voce, mentre la gigantografia che campeggia dietro di loro mostra la sinistra copertina di Fantasma, ispirata alle locandine dei film di Dario Argento.
Anche la seconda parte dello show è decisamente all’insegna del nuovo album: Cristina, Contà l’Inverni, con Bianconi che si scusa col pubblico capitolino per il suo romanesco, la bellissima Monumentale (di nome e di fatto), cantata da una Bastreghi assoluta padrona della scena, e La Morte Non Esiste Più.
Il pubblico però vuole anche i pezzi vecchi, e ogni tanto dalla folla si leva qualche grido che reclama Gomma o Cin Cin. Un po’ come se al Battiato versione direttore d’orchestra chiedessero di suonare Cuccuruccucu tra uno Chopin ed uno Strauss.
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Però i Baustelle ancora non sono come Battiato, per cui ecco accontentati anche i fan della prima ora con il primo salto indietro alle atmosfere tardo adolescenziali de Il Sussidiario Illustrato della Giovinezza, disco che nel 2010 ha festeggiato il decennale con un’edizione ed un tour celebrativi.
Il synth che apre La Canzone del Parco provoca un autentico boato da parte del pubblico.
Seguono L’Aeroplano e Col Tempo, cover di un brano di Leo Ferrè che Bianconi presenta come la traduzione italiana di una delle più belle canzoni mai scritte sul tempo che passa.
Ed è proprio il tempo il concept che fa da collante allo spettacolo cui stiamo assistendo.
Tempo che però sembra fermarsi nuovamente quando la band propone in sequenza Il Corvo Joe – da La Malavita (2005) – e Alfredo, scritta in memoria di Alfredino Rampi, il bambino morto in un pozzo a Vermicino, alle porte di Roma, nel 1981.
Anche la chiusura del secondo atto è affidata a due pezzi nuovi, con L’Estinzione della Razza Umana e la strumentale Fantasma (titoli di coda,) prima che la band lasci di nuovo il palco in attesa dell’ultimo bis.
Al rientro, i violini fanno appena in tempo ad accennare le note iniziali di Charlie Fa Surf, il brano più celebre dell’ensemble toscano, che il pubblico va in visibilio ed inizia a cantare all’unisono, anche se c’è da dire che in questa nuova versione orchestrale il pezzo lascia un pò a desiderare.
Ecco poi Le Rane, dal controverso album del 2010 I Mistici dell’ Occidente, la sempre adrenalinica La Guerra e’ Finita, e la chiusura affidata ad una versione da brividi di Andarsene Così, da Amen (2008).
E in un amen la band saluta e scompare dietro le quinte portandosi via strumenti ed orchestra. Non le emozioni, pero. Quelle rimangono con noi.
Valerio Di Marco
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