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“Er duca e ‘r dragone” ovvero Ponte Milvio in due sonetti del Belli

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La Torretta Valadier edificata soltanto da trent’anni e l’osteria “da Pallotta” aperta da quindici. Niente bar alla moda o tavolini sui marciapiedi, nessun semaforo e nessuna kermesse commerciale, niente movida. La campagna invece dei condominii, le vigne in luogo dei parcheggi, lo Stato Pontificio al posto della Repubblica Italiana: Ponte Milvio, anno1835, l’elegante carrozza di un duca incrocia il cavallo sellato da un dragone pontificio ubriaco.

Prosegue la ricognizione di VignaClaraBlog.it all’interno del patrimonio inestimabile di sonetti che ci ha lasciato in eredità Giuseppe Gioacchino Belli (1791 – 1863) alla ricerca di versi che contemplino, in un modo o nell’altro, i luoghi della zona nord della capitale.

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Questa volta vi proponiamo “Er duca e ‘r dragone”, due sonetti tra loro collegati – scritti nel gennaio del 1835 – nei quali si tratteggia, con arguzia e con una filosofica considerazione finale, la personalità del duca Marino Torlonia e si narra del suo malaugurato incontro con un soldato pontificio.
In essi, servendosi della sua ironia penetrante e della sua saggezza irriverente, il poeta utilizza come di consueto un linguaggio magnificamente colorito e splendidamente crudo, riproducendo il modo di argomentare tipico della plebe che viveva a Roma nel XIX secolo. Con Sor Ponte Mollo che, testimone dell’evento quasi tragico e sicuramente comico, si gusta pacioso tutta la scena.

La vicenda è questa: il duca di Poli, Marino Torlonia (1795 – 1865) – figlio maggiore di Giovanni Torlonia, l’artefice delle fortune di famiglia, e di Anna Maria Schultheiss – uomo di bell’aspetto e amante della mondanità, transitando con il suo tilbury (una carrozza di gran lusso) nei pressi di Ponte Milvio, si imbatte in un dragone pontificio che palesemente si tiene male in sella sul proprio cavallo. Parlando con il proprio valletto, il duca dice: “è ubriaco”.

Il soldato, che fa parte di un corpo organizzato nel 1800 con il compito di contrastare il brigantaggio e di fiancheggiare la fanteria pontificia sui campi di battaglia, ode questa considerazione e, furibondo, minaccia il duca con una pistola. Al titolato non resta altro che una fuga ingloriosa all’interno di una vigna e di un suo piccolo fabbricato, mentre il vignaiolo e due suoi lavoranti bloccano il soldato sbronzo, che si è lanciato all’inseguimento del nobile, con un colpo ben assestato nelle parti basse. Passato il pericolo, il duca può finalmente venir fuori dal proprio rifugio.

Ricordandovi che potete trovare qui, qui ed ancora qui i nostri tre precedenti articoli riguardanti le poesie di Giuseppe Gioacchino Belli ambientate a Roma Nord (rispettivamente Tomba di Nerone, Monte Mario e la Merluzza), vi auguriamo buona lettura.

Er duca e ‘r dragone
Sonetti due

Ma er dragone ar zentisse (1) dí ubbriaco
appuntò ‘na pistola a ddon Marino,
che sse poteva, povero duchino,
passà addrittura pe una cruna d’aco.

A st’antifona hai visto quer ciumaco? (2)
S’arza, se butta ggiú ddar carrozzino,
mette mano a una viggna, entra ar casino, (3)
ce se serra, eppoi disce: «Me ne caco».(4)

Tratanto er viggnarolo e ddu’ garzoni
investirno (5) er zordato, e ssur tinello
l’affermonno (6) co un carcio a li cojjoni.

A sto carcio, er zor Prencipe de drento,
fórzi (7) pe ssimpatia da bbon granello, (8)
fesce un strillo futtuto (9) de conzento. (10)

8 gennaio 1835

1) ar sentisse: al sentirsi
2) ciumaco: il duca Marino Torlonia, che all’epoca di questo episodio aveva quarant’anni, era di bell’aspetto e il Belli non manca di sottolinearlo ma lo fa con la sua consueta, penetrante, ironia, utilizzando un termine che solitamente viene riferito ai fanciulli
3) casino: piccola costruzione
4) me ne caco: modo di dire che sta per “me ne rido”, “me ne infischio”
5) investirno: affrontarono
6) l’affermonno: lo fermarono
7) fórzi (o fórze): forse
8 granello: il testicolo, la ghiandola seminale dell’abbacchio o del vitello. Il Belli affonda decisamente il colpo sul finale del primo sonetto dedicato all’episodio.
9) futtuto (o fottuto): qui sta per “sguaiato” o “tremendo”
10) de conzento: “di consenso”, “d’approvazione”

Er duca e ‘r dragone

È scappato, sicuro ch’è scappato.
Cosa aveva da fà ppovero Duca?
In st’incastri che cqua ‘na tartaruca
diventerebbe un lepre scatenato.

Er zu’ ggiacchetto è una cratura sciuca: (1)
er cane der dragon era ingrillato: (2)
er cancello era bbell’e spalancato:
lui dunque a ggamme come una filuca. (3)

Er ziggnor Duca è un giovene medòtico (4)
che ffa le cose in regola e sse strugge
dar gran talento sibbè (5) ppare un zotico.

Co un zordato a ccavallo è ccosa scerta
che un pedone nun vince antroc’a ffugge. (6)
Omo a ccavallo sepportura uperta. (7)

9 gennaio 1835

1) Er zu’ ggiacchetto è una cratura sciuca: il suo valletto è una creatura di piccole dimensioni
2) er cane der dragon era ingrillato: il “cane”, ossia il percussore dell’arma impugnata dal dragone era alzato e pronto a scattare per l’azione del grilletto
3) a gamme come una filuca: (se la diede) a gambe levate rapido come una feluca (imbarcazione bassa e veloce, di dimensioni ridotte e dotata di una o due vele)
4) medòtico: metodico
5) sibbè: sebbene
6) Co un zordato a ccavallo è ccosa scerta che un pedone nun vince antro c’a ffugge: contro un soldato a cavallo, un pedone non può far altro che fuggire (non può vincere nient’altro che la fuga). Anche il duca, duramente apostrofato dal poeta nel primo sonetto e spogliato ora della sua posizione e del suo titolo nobiliare, alla fine è soltanto “un pedone”, un uomo come tutti gli altri.
7) Omo a ccavallo sepportura uperta: uomo a cavallo, sepoltura aperta.

NdR: Per la compilazione delle note abbiamo consultato il “Dizionario Romanesco” di Fernando Ravaro e il libro “Tutti i sonetti romaneschi di G.G. Belli – edizione integrale” a cura di Marcello Teodonio (entrambi pubblicati da Newton Compton Editore).

Giovanni Berti

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